Moda e sviluppo sostenibile

Il rapporto della Fondazione Ellen Macarthur “A new textiles economy: redesigning fashion’s future” afferma che il settore tessile e dell’abbigliamento ha visto raddoppiarsi, negli ultimi 15 anni, i propri volumi di produzione. Le stime dicono che la maggior parte di persone ha comprato, negli ultimi anni, il 60% in più di vestiti e li ha indossati la metà delle volte rispetto a quanto accadeva nel 2014. Questa tendenza, ormai, non è radicata solo nei paesi industrializzati, ma anche in quelli cd emergenti come Cina e India.

La moda sempre più mutevole e a basso costo ha determinato un cambiamento nel nostro modo di vestirci, in particolare ha modificato il nostro approccio agli abiti e al come vengono percepiti. La maggior parte di noi possiede molti più capi di abbigliamento di quelli che è possibile utilizzare, nostri armadi strabordano di abiti, ma noi continuiamo a vedere solo oggetti usa e getta di cui non prendersi minimamente cura.

La moda “usa e getta” è un business ampio e sofisticato alimentato da un sistema produttivo frammentario e a bassa tecnologia, i bassi costi e gli alti profitti hanno sempre costituito, per il comparto della moda, una priorità rispetto alla sostenibilità ambientale e sociale.

I grandi produttori di tessile e moda hanno rincorso bassi costi di produzione, delocalizzando in tutto il mondo, prediligendo quei paesi dove il salario era minimo, le protezioni sindacali e le norme a tutela dell’ambiente inesistenti.

In questo modo si è creata la cd “globalizzazione dell’indifferenza” verso

  • le miserrime condizioni di lavoro a cui venivano costretti gli addetti del settore, per lo più donne, che sono tra le principali vittime di questa industria dell’usa e getta
  • gli impatti ambientali derivanti da un modello di produzione insensibile all’ambiente.

Ai problemi legati ai diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, si aggiungono quelle questioni che incidono direttamente sullo “stato di salute” dell’ambiente. Questo comparto produttivo purtroppo si muove ancora seguendo un modello di economia lineare, infatti, molti risultano essere gli impatti sull’ambiente, come:

  • l’inquinamento atmosferico; le emissioni prodotte dal tessile-moda contribuiscono al cambiamento climatico molto di più del settore della mobilità aerea e navale messe insieme.
  • il depauperamento idrico; il consumo di acqua, in questo comparto, è altissimo, per produrre un kg di cotone, necessario per produrre una T-shirt, servono da 10.000 a 20.000 litri di acqua, a cui si aggiunge quella utilizzata per la tintura, il finissaggio e il lavaggio
  • l’inquinamento sia chimico che da plastiche, micro e nano plastiche; dal 2011, la campagna Detox di Greenpeace ha riunito svariate aziende, tra cui marchi di moda, grandi rivenditori e fornitori tessili, per raggiungere l’obiettivo “zero scarichi” di sostanze chimiche pericolose entro il 2020. Tuttavia, se la tendenza ad acquistare sempre più vestiti continuerà, tutti i vantaggi che sono stati finora raggiunti, eliminando le sostanze chimiche pericolose, saranno superati da più alti tassi di produzione e consumo.
  • la perdita di suolo; il comparto tessile, entro il 2030, sfrutterà 115 milioni di ettari in più di terreno per coltivare fibre necessarie alla produzione di tessuti, con una conseguente perdita di biodiversità
  • il consumo di alti quantitativi di energia; l’elevato consumo di energia produce circa il 3% della produzione gobale di CO2 ovvero più di 850 milioni di tonnellate di CO2,
  • la sovra-produzione di rifiuti tessili; 300.000 tonnellate di vestiti dismessi, ogni anno, finiscono in discarica o sono destinati all’incenerimento. Le stime suggeriscono che circa il 95% dei capi di abbigliamento vengono gettati via con i rifiuti domestici mentre potrebbero essere usati nuovamente, rigenerati o riciclati. Purtroppo invece la maggiore parte finiscono in discarica o nell’inceneritore, in questo modo si “bruciano” tutte le risorse naturali utilizzate per produrli e si genera ulteriore inquinamento legato allo smaltimento. Il numero di abiti prodotti con poliestere e fibre miste (per lo più poliestere e cotone) ha incrementato la quantità di vestiti di bassa qualità, che, una volta raggiunto il fine vita, possono essere assoggettati quasi esclusivamente a processi di “down re-cycling”(riciclo di basso valore).

Anche i Governi, oltre ai singoli cittadini, dovrebbero fare la loro parte, adottando alcune azioni utili al cambiamento, come l’introduzione di

  • incentivi economici alle imprese che convertono la loro produzione e si rendono più sostenibili sia socialmente che ambientalmente
  • una tassazione favorevole per tutti coloro che producono capi di moda a basso impatto ambientale, come quelli che contengono fibre di cotone organico o PET riciclato
  • una tassazione sfavorevole per chi usa plastiche vergini, anche al settore moda, penalizzando quei capi che non contengono almeno il 50% di PET riciclato
  • responsabilità del produttore, ipotizzando che le imprese del settore moda destinino unasommada definire per ciascun indumento prodotto finalizzata alla gestione del suo fine vita
  • una normativa che vieta di destinare all’incenerimento o alla discarica gli stock di capi di abbigliamento o accessori-moda che rimangono invenduti.

Oltre a ciò, i Governi dovrebbero facilitare e incentivare:

  • i rapporti di collaborazione tra le imprese della catena produttiva del tessile-moda ed i gestori delle acque
  • l’attività di studio e ricerca sui nuovi materiali, affinché questi siano sempre più sostenibili, riducendo, in particolare, la loro capacità di rilasciare micro o nano plastiche
  • le campagne di informazione tese a modificare le scelte di consumo, in particolare quelle delle giovani donne, spesso tra le più attratte dalla moda usa e getta o cd “fast fashion”
  • tutte le misure necessarie a porre fine ad un modello circolare: produci-usa-getta, che produce, in continuo, abbigliamento di scarso valore economico ed emozionale, venduto a basso prezzo soprattutto on line, ma non solo.

Per quanto riguarda infine le imprese che lavorano in questo comparto industriale, possiamo dire che alcune cominciano a ripensare ai propri modelli, impegnandosi a rendere i processi produttivi più sostenibili dal punto di vista ambientale, come dimostra anche la recente sottoscrizione della Carta della moda sostenibile e a favore del clima da parte di importanti marchi.

Tra le buone pratiche che possiamo citare troviamo grandi brand come Nike che ricicla le proprie scarpe sportive producendone materiali per la realizzazione di campi da gioco sintetici, oppure Patagonia e North Sails che hanno strutturato un sistema di vendita, rammendo, recupero e riciclo dei loro stessi abiti attraverso i punti vendita, o ancora GStar che da diversi anni propone la linea Raw for the Ocean che recupera le plastiche del mare, ed infine Uniqlo che seleziona i capi usati in parte per il riciclo ed in parte destinandoli ad associazioni benefiche in tutto il mondo.

Sul territorio toscano, pur non potendo citare veri e propri modelli di business consolidati, esistono importanti buone pratiche, un esempio è il progetto Detox promosso da Greenpeace ed oltre a questo l’impegno degli industriali per l’adozione dello standard promosso a livello internazionale GRS ovvero Global Recicle Standard ovvero una certificazione che provi quanti e quali materiali riciclati vengono utilizzati. Questa certificazione vuole essere non solo un pezzo di carta ma un modo per costruire i mattoncini di una supply chain tracciabile e con valori di sostenibilità effettivi e dimostrabili.

L’industria del tessile e della moda sta quindi muovendo i primi passi verso un cambiamento, spesso sotto la spinta dei consumatori sempre più sensibili alla tutela dell’ambiente, come dimostra anche il sondaggio curato da Ipsos Mori per conto di Changing Markets Foundation e Clean Clothes Campaign, che cerca di capire quale sia la consapevolezza dei consumatori circa la relazione esistente tra moda e inquinamento ambientale.

Il sondaggio, realizzato ad ottobre del 2018, coinvolgendo quasi 8000 persone (7.701) in 7 differenti paesi: Gran Bretagna, USA, Francia, Germania, Italia, Polonia e Spagna, mette in chiara evidenza che le persone mostrano una certa attenzione per l’ambiente e per gli impatti che su di esso produce l’industria del tessile e della moda.

Dobbiamo dare un calcio alla fast fashion, questo non sarà d’aiuto solo per l’ambiente ma anche per noi stessi. Il primo passo da fare, anche il più semplice, è fare durare più a lungo i nostri abiti, utilizziamo quello che abbiamo nel nostro armadio e prendiamoci cura dei nostri capi, ripariamoli, rimettiamoli a modello, scambiamoli con gli amici e trasmettiamoli da una generazione all’altra.

Aumentando la vita dei nostri abiti potremmo ridurre gli impatti sull’ambiente, raddoppiando l’uso dei nostri vestiti da un anno a due anni possiamo ridurre le emissioni di gas ad effetto serra di più del 24% per anno, al tempo stesso, possiamo risparmiare energia. Lo stesso se acquistiamo vestiti di seconda mano. Se, invece, abbiamo bisogno di acquistare nuovi capi, scegliamo quelli con marchio ecologico che garantiscono una maggiore sostenibilità ambientale e durabilità del prodotto.

Testo a cura di Stefania Calleri


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