Una preoccupazione riguardo all’introduzione della tecnologia 5G è stata espressa da diversi meteorologi, e in particolare da chi si occupa di rilevazione satellitare: esiste infatti un rischio di interferenze con le frequenze (naturali) rilevate nell’osservazione del vapore acqueo e dell’ossigeno presente in atmosfera, con conseguente rischio di non avere a disposizione informazioni fondamentali per le previsioni a breve termine e per l’allertamento in caso di fenomeni intensi. Su questo tema, abbiamo chiesto maggiori dettagli a Tony McNally, Principal Scientist nel Dipartimento di Ricerca del Centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio termine (Ecmwf), dove è responsabile per le osservazioni satellitari a infrarossi.
Qual è il potenziale problema con le frequenze 5G? Su che cosa potrebbero
avere un impatto?
Per fare previsioni meteo di alta qualità, una cosa molto importante che dobbiamo fare è la valutazione dello stato dell’atmosfera in questo momento, per tracciare un quadro della “condizione iniziale dell’atmosfera”. Se vogliamo una previsione che vada più avanti di qualche ora, per esempio una previsione a 5-10 giorni sull’Italia, occorre sapere com’è il tempo in tutto il mondo: il tempo che caratterizzerà l’Italia tra 5 giorni avrà origine sugli Stati Uniti o addirittura nell’Oceano Pacifico. Uno degli elementi chiave dei sistemi di osservazione che abbiamo a disposizione, che può aiutarci a tracciare questo quadro globale, sono i satelliti.
La fonte più importante di osservazioni da satellite è quella effettuata con sensori a microonde a bordo del veicolo spaziale. Questi sensori fondamentalmente “ascoltano” i segnali che vengono dalla radiazione naturale dalla superficia della Terra e dall’atmosfera. Per le leggi fondamentali della fisica, le frequenze alle quali il nostro pianeta emette microonde sono fisse, non possiamo sceglierle. Il vapore acqueo e l’ossigeno emettono una radiazione a microonde a frequenze molto specifiche. Il problema di fronte a cui ci troviamo oggi è che le industrie di telecomunicazione cercano frequenze su cui far operare i segnali come quelli della rete 5G ed è concreta la minaccia in questa fase che le reti 5G operino a frequenze (circa 23 GHz e circa 37 GHz) molto vicine alle frequenze naturali che osserviamo tramite i satelliti. Quindi, l’ovvio pericolo è che i segnali da queste reti di telecomunicazioni a terra contaminino l’osservazione che noi facciamo dallo spazio (segnali di ampiezza molto piccola). I sensori a bordo dei satelliti sono estremamente sensibili, possono ascoltare questi segnali a frequenze naturali molto deboli. Un flusso molto intenso da una stazione terrestre 5G potrebbe completamente “accecare” il satellite. E se i satelliti non sono più in grado di vedere, vengono a mancarci segnali meteorologici molto importanti, con potenziali conseguenze catastrofiche per l’accuratezza delle previsioni.
Quali conseguenze avrebbe questo, in termini di giorni o ore “persi” per un allarme tempestivo in caso di eventi estremi?
Penso che sia molto difficile quantificare in termini generali quale sarebbe il danno, dipende da quante di queste emissioni di telecomunicazioni ci saranno e dove si troveranno. Lo scenario peggiore è che questa contaminazione avvenga in una regione critica. Se c’è uno sviluppo molto piccolo, ad esempio nell’Europa occidentale o in Italia e i satelliti vengono accecati, noi non saremmo in grado di raccogliere i primi segnali di una tempesta convettiva molto intensa, un evento che può portare piogge molto intense, come quelli che succedono in estate. Le conseguenze della mancanza di un allarme preventivo in questi casi potrebbero essere catastrofiche.
Ci sono stati problemi analoghi in passato con l’introduzione di nuove tecnologie?
Sì, abbiamo avuto problemi di questo tipo in passato, è stata una lunga battaglia tra le agenzie di telecomunicazioni commerciali e la comunità internazionale che si occupa di rilevamento satellitare. L’esempio peggiore è quello del satellite Smos (lanciato dall’Esa), un satellite a microonde che opera a 1,4 Ghz, che è stato completamente “distrutto” dalle emissioni delle reti di telecomunicazione. Il satellite Smos, che misura l’umidità del suolo e la salinità degli oceani, è diventato inutilizzabile proprio per queste emissioni dalla superficie terrestre.
Com’è possibile risolvere questo problema?
Quello che abbiamo cercato di fare negli anni è di spiegare la natura del problema alle agenzie governative che regolano effettivamente l’allocazione dello spettro. C’è stato un buon dialogo con questi organismi, ma i regolatori sono sempre sottoposti a enormi pressioni commerciali, per rilasciare sempre più frequenze per operazioni commerciali. Non c’è alcun accordo legalmente vincolante a livello internazionale in vigore per proteggere queste frequenze, che sono quindi sempre in pericolo e vulnerabili alle decisioni dei singoli paesi relativamente alla possibilità di operare a queste frequenze fondamentali.
L’Organizzazione meteorologica mondiale e altre istituzioni si sono mosse per trovare una soluzione?
L’Organizzazione meteorologica mondiale e tutti i principali operatori satellitari hanno documentato molto chiaramente quali frequenze debbano essere protette. Ora abbiamo bisogno di una forte risposta da parte dei governi per onorare questi accordi. Ma talvolta emergono difficoltà per questioni al limite: gli operatori delle telecomunicazioni potrebbero usare frequenze molto vicine alla banda protetta, anche se non all’interno di essa. Così, a livello legale starebbero rispettando le condizioni, ma con i sistemi di cui stiamo parlando c’è quella che potremmo chiamare dispersione di radiazione fuori banda. Anche se il sistema di telecomunicazione è al di fuori della banda protetta, ci potrebbe essere una contaminazione se la tecnologia è di scarsa qualità o se è troppo potente. Una cosa particolare legata al 5G è che le nuove frequenze richiedono una potenza più elevata e molte più stazioni per ritrasmettere i segnali. Questo significa che ci sarà una minaccia molto maggiore per i satelliti meteorologici.
L’unica soluzione, quindi, è quella di proteggere queste frequenze?
È esattamente così. Noi non possiamo scegliere le frequenze che dobbiamo osservare, quelle che i satelliti devono misurare: sono frequenze naturali, che dipendono dalla fisica del nostro pianeta. Al contrario, le agenzie di telecomunicazione hanno scelte a disposizione. Gli operatori possono scegliere su quale parte delle frequenze operare. Perciò noi contiamo sui regolatori perché siano corretti e prendano una posizione molto forte per assicurare che gli operatori di telecomunicazioni non “contaminino” queste bande di frequenze protette.
Intervista e traduzione a cura di Stefano Folli,
direttore responsabile rivista Ecoscienza
Nell’immagine: Interferenze di radiofrequenza, evidenti interferenze di radiofrequenza (Rfi) su terra e oceani nei canali della banda C (6 GHz) del satellite Smos, agosto 2018. Fonte: Esa/Ecmwf