Nell’ambito del ciclo di giornate scientifiche sui cambiamenti climatici, a cura di Arpat, si è tenuta nel mese di giugno la lectio magistralis di Francesco Ferrini, ordinario di Arboricoltura generale e coltivazioni arboree presso la facoltà di Scienze e tecnologie agrarie, alimentari, ambientali e forestali dell’Università degli studi di Firenze, che ha illustrato come le specie arboree possono aiutarci ad affrontare gli effetti del cambiamento climatico.
Gli alberi infatti possono:
– offrirci sollievo, abbassando in modo naturale le temperature nelle notti tropicali, con temperature superiori ai 25 °C e durante le ondate di calore, cioè quei periodi con giornate superiori ai 35 °C
– rallentare l’effetto di scorrimento dell’acqua piovana, che, cadendo su terreni impermeabili e aridi a causa di lunghi periodi di siccità, se ne va via senza infiltrarsi nel terreno.
Certo dobbiamo, in primo luogo, affrontare le cause che determinano il cambiamento del clima, sappiamo che c’è un impegno della comunità internazionale per ridurre le emissioni di gas climateranti e che la scienza ha già affermato che molti dei problemi non spariranno con la riduzione delle emissioni di gas ad affetto serra, perché questi, in particolare la CO2, persisteranno per molto tempo in atmosfera. Questo comporterà eventi meteo opposti: fortissime ondate di calore con periodi di siccità e fenomeni intensi di piogge, sempre più estremi e frequenti.
Del resto anche i dati a nostra disposizione confermano che le notti tropicali, con temperature superiori ai 25 °C, sono aumentate in modo costante dalla fine degli anni ‘80, inizi anni ‘90 e sono in aumento anche le ondate di calore, ovvero giornate con temperature superiore ai 35°C.
Questa tendenza si manifesta anche in Toscana, dove dal 1955 si è registrato un costante aumento dei giorni con temperatura oltre i 35°C. Un cambiamento, dal 1990 al 2014, ha interessato le piogge che, pur mantenendosi costanti in termini quantitativi, si manifestano in modo diverso: frequenza, intensità e distribuzione sono cambiate negli ultimi anni.
L’aumento delle temperature collegate al cambiamento climatico comportano problemi non solo ambientali ma anche di salute. Negli ultimi anni, si sono registrati aumenti delle malattie dell’apparato respiratorio, stress, sbalzi di umore e aggravamenti delle patologie del sistema nervoso. Talvolta il caldo può provocare problemi più seri che possono portare alla morte. Nel 2003, anno caratterizzato da una primavera-estate estremante calda, sono stati certificati 20.000 morti in più dell’anno precedente, attribuibili, per una gran parte, all’anomalia climatica.
In Italia, purtroppo, gli eventi meteo estremi e improvvisi ci colgono ancora impreparati, dobbiamo migliorare le nostre capacità di prevenire e essere proattivi. Uno dei primi passi da fare è cambiare le politiche di pianificazione, in particolare nelle città, dove, nel prossimo futuro vivrà la maggiore parte delle persone e dove è necessario aumentare la presenza di alberi e gestire al meglio il deflusso delle acque piovane.
In primo luogo, è necessario mitigare gli impatti, riducendo le emissioni di gas a effetto serra e preservando le presenze naturali nelle aree soggette a processi di urbanizzazione con la consapevolezza che l’anidride carbonica rimarrà in atmosfera per molto tempo e gli effetti benefici della riduzione non saranno immediati. Mitigare gli impatti vuol dire vedere l’acqua non come un “fastidio” da rimuovere: l’acqua non deve stagnare, l’acqua va regimentata e incanalata. Ora, al contrario, è necessario recuperare l’acqua, creando cisterne per l’accumulo delle acque da sfruttare in momenti di siccità.
Bisogna cambiare mentalità, acquisendo un comportamento simile a quello della natura (nature based-solution e nature-based thinking). Questo ci consentirebbe di adottare nelle nostre città una strategia di rigenerazione, che non è una semplice riparazione o un piccolo abbellimento.
Nelle nostre città uno dei primi problemi da affrontare è quello dell’impermeabilizzazione del suolo, obiettivo: de-impermeabilizzare. Il nostro Paese ha un’alta copertura di suolo, le città sono impermeabili dal 60% al 90%. Si stima che il 7,64% del territorio italiano, ovvero una superficie pari a 355 m di suolo per cittadino, sia già impermeabilizzato. Questo amplifica il calore nelle aree urbane e rende difficile la gestione delle acque piovane che, sul suolo impermeabile, scorrono via (effetto run off), non si infiltrano e non contribuiscono a ricaricare le falde acquifere.
Facciamo un esempio concreto di cosa potrebbe essere fatto in una città per adeguarsi al cambiamento climatico, pensando a un’infrastruttura come un parcheggio scambiatore. La mobilità urbana influisce molto sulla vivibilità di una città, avere a disposizione un mix di mezzi di trasporto rappresenta un valore aggiunto e il parcheggio scambiatore costituisce uno snodo fondamentale. Il parcheggio dovrà essere progettato in modo da essere un luogo con molti alberi e una pavimentazione porosa in grado di fare infiltrare l’acqua. Questi “semplici” accorgimenti, che non creano alcun danno, secondo il principio del Dnsh – Do not significant harm, sono in grado di regolare il micro-clima di questo spazio, creando un’area, dove pur essendoci degli impatti, si presenta come amena e in grado di ridurre l’impatto del cambiamento climatico e dell’inquinamento urbano, connotato a elevate emissioni in atmosfera e alto tasso di rumorosità.
Oggi disponiamo di diversi metodi basati su un approccio olistico, che tiene conto dell’albero ma anche di ciò che ci sta sotto: suolo e sottosuolo. Ogni spazio verde è importante, non va visto come separato dal resto che lo circonda, ma come una rete (internet of pipes = internet dei tubi) in grado di gestire le acque e influire sul micro-clima. Come accade in Cina nelle sponge cities, città spugna, che assorbono acqua, la stoccano e la rilasciano gradualmente. Nelle città progettate per affrontare il cambiamento climatico, gli spazi verdi sono interconnessi con il suolo e il sottosuolo e con le altre infrastrutture come strade o piste ciclabili. I parchi agiscono come delle macchine in grado di intrappolare l’acqua, riducendo la velocità e rendendo possibile la sua infiltrazione nel suolo e nel sottosuolo ma sono pensati anche per finire sott’acqua nei periodi di forti piogge.
La vegetazione arborea, quindi, è in grado di affrontare gli eventi meteo estremi ma bisogna scegliere le specie che si adattano di più alle condizioni più estreme, sopravvivendo anche sott’acqua. Naturalmente non c’è un’unica soluzione ma diverse da valutare tenendo conto di diversi fattori come la foglia, la chioma, la corteccia dell’albero.
Gli alberi sono anche nostri alleati contro le isole di calore: in campagna c’è molto più fresco che in città, così come nei parchi c’è più fresco che nelle aree urbane con molti edifici e pavimentazioni in asfalto di colore scuro. Non dimentichiamoci che il cambiamento climatico sta accelerando anche a causa della mancanza di neve, i ghiacciai si stanno ritirando e le parti scoperte di suolo non riflettono i raggi solari, ma li assorbono, incamerando calore.
Il cambiamento climatico in città è ben percepibile, favorito anche dalla pavimentazione presente ovunque e da una scarsa o ridotta presenza di verde.
Quali strategie possiamo adottare contro le isole di calore?
Bisogna piantare alberi e de-impermeabilizzare le pavimentazioni, optando per quelle porose che fanno filtrare, drenare l’acqua e magari anche depurarla dagli agenti inquinanti con sistemi ad hoc. Altre misure prevedono di aumentare la riflettanza dei tetti e ridurre quella delle pavimentazioni urbane, che di solito sono scure.
Cambiare il volto delle città con le infrastrutture verdi in grado di ridurre le isole di calore, abbassando le temperature, comporta notevoli investimenti, che non sono da considerare solo come costi in quanto hanno un ritorno importante in termini di tutela dell’ambiente, socialità tra persone e salute umana.
Le specie arboree contribuiscono quindi al raffreddamento in modo naturale ma scegliere quale albero piantare non è banale. Alcune specie resistono meglio alla siccità e hanno più capacità di adattarsi ad alti irraggiamenti.
Ci sono indicatori verdi che forniscono informazioni su come migliora il contesto urbano con interventi di implementazione della vegetazione. Le scelte da fare nei nostri centri urbani dovrebbero andare nella direzione di massimizzare il verde esistente, valorizzando anche piccoli spazi verdi, prevedendo quali interventi effettuare in via prioritaria e a breve termine, tenendo conto delle attività e delle persone presenti in una specifica area.
Stiamo acquisendo sempre maggiore consapevolezza sui problemi economici e sociali, oltre che ambientali, connessi al cambiamento climatico , dovremmo, nel prossimo futuro, investire sulle città affinchè seguano la regola del 3:
- ogni cittadino dovrà vedere 3 alberi dalla finestra di casa
- ogni cittadino dovrà vivere in un’area che prevede il 30% di copertura arborea
- ogni cittadino dovrà avere a 300 metri di distanza dalla propria abitazione uno spazio verde, seguendo l’idea della città dei 15 minuti.
Sarà difficile per le nostre città rispettare questi tre parametri, l’obiettivo è quello di rispettarne almeno uno, adottando una mentalità ecologica e abbandonando una visione ecologica del mondo: “Non si può entrare in casa degli altri sfondando la porta”.
Utili i convegni e le lectio magistralis. Ma il professor Ferrini è una goccia pulita nel mare di ignoranza botanica che affligge questo paese e che alla fine nessuno ascolta. Utili le normative europee. Dove sono le leggi italiane? Non esistono, semplicemente non esistono. E con le linee guida non obblighi nessuno a fare nulla.
Non c’è Ferrini che tenga se la cura degli alberi in città è minacciata costantemente da: regolamenti comunali per il verde non adeguati alle conoscenze attuali, gare d’appalto al ribasso in cui vince il meno competente dedito al capitozzo, capitozzi messi in atto per guadagnare dalla rivendita agli impianti a biomasse (Verdi? Ecologici? E la CO2 che era fissata in quel legno su per il camino?), cantieri edili in cui abbattere è sempre l’unica scelta possibile, agronomi che non vogliono responsabilità o sono compiacenti e autorizzano secmpi di portata inaudita, incapacita di depavimentare davvero, slogan per milioni di alberi e ce ne fosse uno che viene annaffiato dopo l’impianto. A Milano, come a Firenze, come a Lecce.
Un’ignoranza diffusa, dal Ministero all’ufficio tecnico del comunello. E ARPA, non è diversa in generale. Quanti alberi abbattuti in area di bonifica che si potevano salvare? Quante VAS inascoltate? E si potrebbe andare avanti ore a scrivere e argomentare.
Il punto è che se le normative non esistono o, se esistono, sono anacronistiche e obsolete, tutto è lasciato alla sola sensibilità di quel funzionario, di quel dirigente, che un po’ lo ha capito e cerca di mettercene del suo. ma così non si va avanti, così si aspetta la catastrofe in puro stile “Don’t look up”.
Professor Ferrini tenga duro.
Alta dirigenza ambientale: occupatevene per davvero, spingete per una normativa rapida, veloce e soprattutto adeguata. I convegni diffondono informazioni preziose, ma senza azioni successive (e siamo davvero alla preistoria rispetto all’Europa) si rischia di renderli solo un modo per lavarsi la coscienza ambientale (ovvero fare greenwashing, che detto in inglese non rende bene l’idea, in italiano è chiaro a tutti).
Perché non considerare anche la ri-alberatura di tutte le strade, anche di grande comunicazione, oltre il guard-rail? E gli argini di fossi e fiumi?