Autunno sulle colline di San Quintino ( San Miniato, PI)

La parola chiave intorno alla quale si dovrebbero compiere le scelte è “prevenzione”

Marcello Mossa Verre

Intervista a Marcello Mossa Verre, direttore generale di Arpa Toscana. Continuiamo con lui il giro d’Italia” con i direttori generali delle Agenzie ambientali che compongono il Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente, per capire da loro come stanno affrontando l’attuale periodo di crisi e come pensano di poter contribuire ad uscirne in una logica di “transizione ecologica”, come sempre più spesso si legge nei documenti ufficiali.

Orbetello, i quattro elementi
Orbetello, i quattro elementi – Toscana – Mare – foto di Elisa Balducci

Il Paese sta affrontando una crisi sanitaria, sociale ed economica con pochi precedenti, ma al contempo sta lavorando per uscirne e costruire una prospettiva di ripartenza. In quale modo il SNPA può dare il proprio contributo perché questa ripartenza sia nel segno dell’ambiente?

Anche se ancora non sembra che l’uscita dall’emergenza sanitaria sia vicina, in queste ultime settimane si sta parlando molto del Recovery Plan in corso di predisposizione. Si tratta di una quantità ingente di risorse, il cui utilizzo può effettivamente costituire un punto di svolta per il nostro Paese, che è opportuno non si disperdano in tanti rivoli; un rischio reale, se persino il Presidente della Repubblica si è sentito in dovere di affermare che non ci deve essere un “assalto alla diligenza”. Comunque sia, dalle bozze disponibili risulta che una quota rilevante del Recovery Plan, circa un terzo, sarebbe destinata all’ambiente. Si tratta quindi di capire per quali iniziative saranno utilizzate queste risorse. Va detto che nel nostro Paese siamo abituati ad operare con un approccio “reattivo”, cioè affrontiamo i problemi quando questi si sono manifestati e magari hanno prodotto i loro effetti negativi e, di conseguenza, per recuperare le situazioni critiche dobbiamo spendere molto di più che per prevenirle: si possono fare tanti esempi, come quelli inerenti il dissesto idrogeologico e, collegate a questo, le conseguenze disastrose degli eventi meteorologici estremi, sempre più frequenti a causa del cambiamento climatico.

In altri Paesi si punta invece alla prevenzione, ad esempio, con interventi per l’adattamento al cambiamento climatico delle aree urbane (recenti rapporti dell’Agenzia Europea per l’Ambiente ne hanno parlato). Per me, dunque, la parola chiave intorno alla quale si dovrebbero compiere le scelte è “prevenzione”. Significa che dobbiamo essere capaci di registrare anche i segnali deboli che possono permettere di prevedere le situazioni di criticità e di programmare in anticipo gli interventi necessari affinché queste non si verifichino o si presentino in forma mitigata. Questa mia convinzione nasce, molto probabilmente, dalla esperienza professionale che ho maturato occupandomi a lungo di stabilimenti a rischio d’incidente rilevante, le cosiddette aziende “Seveso”. In questo ambito, la svolta culturale è avvenuta dopo la disastrosa vicenda, appunto, di Seveso, a cui ha fatto seguito una serie di norme europee, recepite anche dal nostro Paese: per questa tipologia di aziende tutto è fondato sulla prevenzione degli incidenti – anche gravi se si dovessero verificare – rendendo minima la probabilità che gli stessi accadano. Ecco, secondo me, questo approccio in campo ambientale e sanitario (e non solo) dovrebbe essere prioritario ed utilizzato sempre.

In realtà, nei Piani Sanitari, alla prevenzione viene destinato circa il 5% dei fondi complessivi disponibili, e in campo ambientale le risorse sono ancora meno, per le Agenzie ambientali sono intorno allo 0,6% – 0,7% delle spesa sanitaria. Compiere una svolta effettiva, andare al di là dello slogan “transizione ecologica”, comporterebbe riflettere su questi numeri e dare risposte concrete. Se la prevenzione rimarrà in queste condizioni, non si potrà davvero parlare di svolta ambientale. Eppure investire in prevenzione significa risparmiare, domani, in “cure”, significa avere una “visione” ed una prospettiva di lungo periodo, e non un’ottica di corto respiro, legata alla risoluzione di volta in volta delle singole criticità. D’altra parte è vero che se si lavora bene in termini di prevenzione, gli “effetti eclatanti” non si vedono, in quanto sono evitati, ed in una società come la nostra in cui tutto viene spettacolarizzato, questo approccio probabilmente non produce consensi immediati.

Vediamo però cosa potrebbe significare operare in tale logica. Vorrei fare tre esempi di temi ambientali per i quali il nostro Paese sconta un ritardo notevole, in alcuni casi è interessato da infrazioni comunitarie che ci costano una ingente quantità di risorse in sanzioni economiche, ed è forse il caso di mettersi in regola, seconda la regola “primum vivere, deinde philosophari”, prima di pensare a chissà quali avveniristici progetti.

Il primo caso è quello della gestione delle acque. Niente di più invisibile, e in questo caso fare prevenzione significa completare le reti fognarie, separare la raccolta delle acque meteoriche da quelle più contaminate, costruire depuratori di dimensioni adeguate e moderni, farli funzionare bene, ecc. Gli effetti evitati: il mare talvolta non balneabile d’estate, i corsi d’acqua classificati di qualità “non buona” perché contengono inquinanti di vario tipo, ecc. Occorrono investimenti importanti, ma se non si fanno ora, quando saranno possibili?

Isola di Montecristo
Isola di Montecristo – Toscana – Mare – foto di Francesco Mantelli

Il secondo caso è rappresentato dalle bonifiche dei siti contaminati. Non mi pare che ci sia un capitolo apposito nelle bozze di Recovery Plan che stanno circolando, eppure è un ambito in cui gli investimenti potrebbero davvero avviare circoli virtuosi. Ampie aree del territorio sono interessate da contaminazioni ambientali, più o meno rilevanti, e questo vale sia per i Siti di Interesse Nazionale, come per quelli di interesse regionale. Investire per risolvere queste situazioni che ci trasciniamo da decenni significherebbe: dare lavoro, risanare l’ambiente, salvaguardare la salute delle persone e recuperare territorio utilizzabile. Per questo credo che nel Recovery Plan non dovrebbe mancare anche una “spinta” per le bonifiche.

Quello che non vediamo-Rimozione di un parco serbatoi carburante
Quello che non vediamo-Rimozione di un parco serbatoi carburante – Toscana – Siti Inquinati – foto di Letizia Tuccinardi

Il terzo caso è quello dei rifiuti e dell’economia circolare, un tema che necessariamente deve stare al centro delle nostre preoccupazioni e che, a mio avviso, dovrebbe concentrarsi su due direttrici di intervento.

La prima è quella della riduzione dei rifiuti prodotti. Anche in questo caso si deve operare in una logica di prevenzione, partendo dalla progettazione degli oggetti e dal modo con cui questi sono confezionati, avendo presenti già all’atto in cui vengono ideati, le modalità con le quali poi andranno trattati alla fine del loro ciclo di vita. Questo significa produrre oggetti smontabili, dove le singole parti possano essere ben distinte per tipologia di materiali impiegati, separabili facilmente e riutilizzabili. Non va poi dimenticato il tema degli imballaggi; in questo momento in cui sono esplosi gli acquisti online, ci rendiamo conto di quanti ne vengano utilizzati, anche data la situazione emergenziale, e quanti rifiuti di conseguenza si producano, un costo aggiuntivo per tutta la comunità. Ma anche tanti prodotti che acquistiamo nei nostri supermercati vedono una presenza di contenitori/espositori eccessiva, anche utilizzati per confezionare oggetti di piccole dimensioni. Occorre, infine, operare nei confronti dei consumatori finali, i cittadini, in termini di educazione, di orientamento a favore di consumi di prodotti coerenti con una logica di economia circolare e, comunque, di incentivazione capillare verso comportamenti corretti nell’uso dei materiali.

La seconda direttrice è quella relativa all’impiantistica per il trattamento dei rifiuti. Specie per quanto riguarda quelli speciali, oggi ci sono una infinità di impianti, di piccole e piccolissime dimensioni, tutti diversi fra loro, che creano notevoli problemi in termini di autorizzazioni e anche di controllo, una vera e propria giungla, mentre allo stesso tempo mancano in Italia impianti adeguati per trattare certe tipologie di rifiuti speciali, come quelli pericolosi. Anche in questo caso occorre fare un salto di qualità in termini di prevenzione. Penso ad un “progetto unificato” a livello nazionale, standardizzato per ciascuna tipologia di impianto di trattamento per le diverse filiere all’interno delle quali pianificare e organizzare l’economia circolare (plastica, carta, ecc.). Progetti che permetterebbero di ottimizzare le prestazioni degli impianti, limitandone le emissioni e facilitandone le modalità di autorizzazione e di controllo. Una riorganizzazione del settore che ci permetterebbe davvero di realizzare una svolta ambientale in questo campo che siamo abituati a vedere, spesso, in condizioni emergenziali.

Il fiume Arno a Pisa
Il fiume Arno a Pisa – Toscana – Acqua – foto di Lucia Viegi

Se la ripartenza del Paese deve essere nel segno dell’ambiente, quali potrebbero essere i problemi che ancora impediscono il consolidamento di un forte Sistema nazionale di protezione ambientale, da affrontare e risolvere una volta per tutte?

A partire dai primi anni che hanno seguito il referendum del 1993 da cui è nato il sistema delle Agenzie ambientali, la nostra storia è costituita da una serie di compromessi, tutti condizionati dal fatto che siamo nati come una “costola” separata dalla sanità, portandoci dietro sin da allora molte caratteristiche del Sistema Sanitario che determinano regole e vincoli non adatti alla nostra specificità. Abbiamo superato da un pezzo la maggiore età (Agenzie come ARPAT vanno ormai per i 25 anni di età) ma in realtà non abbiamo ancora una nostra dimensione in cui l’ambiente sia davvero centrale.

Una questione aperta che ci trasciniamo da tempo è quella contrattuale. Come è noto, l’intero mondo della pubblica amministrazione italiana è stato raccolto in quattro settori: Funzioni centrali, Funzioni locali, Sanità, Istruzione e ricerca. Ebbene, il personale del Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente, circa diecimila persone, è frazionato in tre di questi quattro comparti. Appare evidente, anche a chi non è addentro alle questioni sindacali, che si tratta di una stortura che certo non agevola il buon funzionamento del Sistema. Credo che sia indispensabile fare in modo che tutto il personale SNPA sia ricondotto ad uno di questi settori contrattuali, qualunque sia, ma con un proprio spazio specifico, che permetta di gestire al meglio tutte le professioni presenti, garantendo giustizia ed equità retributiva. Non è possibile far funzionare bene una organizzazione se chi la compone non è consapevole di essere trattato in modo equo rispetto ai propri colleghi: non è possibile che persone ugualmente qualificate e che assumono responsabilità analoghe, dirigendo strutture di peso equivalente, debbano essere retribuite in modo diverso solo per l’appartenenza a questo o quel comparto contrattuale.

Si aggiunge a questo un altro problema, quello collegato col recente riordino di alcuni Ordini professionali; gli Ordini sono previsti dalle norme vigenti, fra i nostri dipendenti ci sono chimici, fisici, biologi, ingegneri, avvocati, geologi, giornalisti iscritti ai relativi albi professionali, è normale che sia così in base alle norme vigenti, ma questo non può significare che figure rientranti nelle cosiddette professioni cosiddette sanitarie (chimici, biologi e fisici) debbano essere automaticamente inquadrate come dirigenti, indipendentemente dalle funzioni che svolgono. Si tratta di una logica che rischia di scardinare l’organizzazione delle Agenzie e di renderle ingestibili. Non ci può essere una organizzazione in cui tutti, o quasi, sono dirigenti. Un dirigente, in qualsiasi organizzazione, è una persona che ha delle responsabilità ben individuate e che gestisce risorse umane, tecniche e finanziarie. Questo non vuol dire che professionisti qualificati, come quelli che abbiamo nelle nostre Agenzie, non debbano avere una retribuzione congrua, in relazione alle funzioni svolte, e che per gli stessi non debbano essere garantiti adeguati percorsi per l’accesso alla dirigenza.

Un altro tema rilevante è dato dalla complessità insita nel Sistema nazionale a rete definito dal legislatore, che però, a mio avviso possiede potenzialità positive molto importanti, da valorizzare. Ogni Agenzia è parte di questo “organismo” , cioè del Sistema con le sue componenti, e d’altra parte ha necessariamente uno stretto legame con la propria Regione. Ecco, penso che presso le Regioni, man mano che il Sistema si assesta, dovrà maturare la consapevolezza che dietro le singole Agenzie c’è un Sistema che può costituire una ricchezza a disposizione delle Regioni stesse. In altre parole, ogni Regione potrebbe utilizzare al meglio il SNPA in una logica di complementarietà e sussidiarietà delle diverse Agenzie che lo compongono. Ad esempio, se in una regione c’è bisogno di fare analisi per la ricerca di uno specifico inquinante, che richiede investimenti e competenze non presenti nella propria Agenzia, mentre in un’altra regione si è investito fortemente proprio in quell’ambito, piuttosto che replicare per 21 volte questi investimenti, perché non utilizzare quanto già messo in atto dagli “altri” in termini di esperienza e disponibilità strumentale? Forme di collaborazione, integrazione, con specializzazioni diversificate da parte delle Agenzie, potrebbero permettere di ottimizzare l’uso delle risorse in una logica non particolaristica, ma di interesse generale.

Da questo punto di vista potrebbe essere utile attivare, nell’ambito della Conferenza delle Regioni, un tavolo parallelo fra i rappresentanti tecnico-istituzionali e quelli delle Arpa sulle tematiche ambientali, proprio per far crescere concretamente questa consapevolezza e favorire il coordinamento delle iniziative, investimenti compresi.

Ponte del diavolo e della Maddalena?
Ponte del diavolo e della Maddalena? – Toscana – Acqua – foto di Ilaria Falconi

Sulla base di condizioni di rinnovata forza e autonomia, il SNPA può svolgere un ruolo importante nello scenario che si sta profilando in Italia e in Europa?

Il Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente, nel quadro che ho cercato di descrivere sin qui, può avere un ruolo molto importante, perché possiede al proprio interno una quantità di competenze tecnico-scientifiche, di esperienze, di conoscenze e dati ambientali, di pratica quotidiana dei territori, che costituisce un patrimonio prezioso a disposizione delle istituzioni e che potrebbe essere utilizzato al meglio come supporto alle politiche ambientali. In effetti le politiche dovrebbero essere definite, a mio avviso, seguendo il modello DPSIR (Determinanti, Pressioni, Stato, Impatti, Risposte), cioè partendo da una (re)visione critica delle scelte che condizionano i Determinanti (politiche industriali, dei trasporti, dell’agricoltura, ecc.) e da un’analisi puntuale delle fonti di inquinamento, che determinano un’ alterazione dello stato dell’ambiente e conseguenti ricadute negative sulla salute dell’ecosistema; questo percorso dovrebbe permettere, quindi, di individuare gli interventi opportuni, le Risposte ai vari livelli, in una visione circolare, sia ispirando le politiche di sviluppo con le relative scelte strutturali, sia incidendo sulle fonti di inquinamento in modo puntuale e verificabile. L’occasione di gestire le risorse del Recovery Plan potrebbe (o sarebbe potuta) essere una occasione unica per applicare un modello di sviluppo così concepito, e il Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente avrebbe tutte informazioni e le competenze per assistere i decisori in questa partita.

Sempre con riferimento alla situazione attuale non va, infine, dimenticato l’appuntamento con la definizione dei LEPTA (i Livelli Essenziali delle Prestazioni Tecniche Ambientali) che può rappresentare davvero un banco di prova fondamentale per il SNPA. Come Sistema abbiamo prodotto recentemente i documenti a supporto della loro definizione: il catalogo dei servizi nel quale si precisa cosa facciamo e i metodi per la quantificazione di quanto costano le prestazioni previste dal catalogo. Ebbene il passo successivo, una volta varata la norma nazionale (un DPCM), rientra appunto nei compiti dei decisori politici: stabilire quali di queste prestazioni privilegiare, destinando i finanziamenti necessari. In altre parole, in ambito nazionale va garantito un livello essenziale di tutela ambientale in tutti i campi, per tutti i territori, poi se in un certo territorio regionale venisse ritenuto prioritario intervenire, ad esempio, sulle emissioni in atmosfera, oltre un certo standard di base, piuttosto che sul controllo dei campi elettromagnetici, il livello politico potrebbe decidere di destinare in tal senso specifiche risorse, in modo del tutto legittimo e trasparente. Quello che auspichiamo si consolidi, è un Sistema che garantisca la protezione dell’ambiente su basi omogenee in tutto il Paese, ma dinamico quanto occorra per adattarsi alle esigenze peculiari dei diversi contesti territoriali.

Intervista a cura di Marco Talluri, coordinatore redazione AmbienteInforma

Firenze
Firenze – Toscana – Ambiente urbano – foto di Marco Talluri

Un pensiero su “La parola chiave intorno alla quale si dovrebbero compiere le scelte è “prevenzione”

  1. Sono pienamente d’accordo, prevenire è meglio che curare, ma, spero che parte di quel terzo di risorsa
    del recovery plan sia destinato a costruire impianti di depurazione degli scarichi di pubblica fognatura o
    impianti che riciclino e/o convertano in energia categorie di rifiuti, ampliare la ricerca al fine di ottenere alla fonte prodotti che abbiano minor impatto ambientale ( minori scarti ,riutilizzo ,meno plastica ecc. ).
    Grazie
    T.Pipitone

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