Al Politecnico di Milano si studia la gestione dei rifiuti urbani in Campania: per i futuri ingegneri ambientali, è un caso-simbolo per le criticità che in passato hanno destato l’attenzione dei media, ma anche per i progressi compiuti dopo la stagione dell’emergenza. Docente di Gestione e trattamento dei rifiuti solidi al Politecnico di Milano, il prof. Mario Grosso è un riferimento su temi quali il recupero, il riciclo e l’economia circolare. Dieci anni fa, nell’ambito di un rapporto di collaborazione con l’Arpa Campania, i suoi studenti di allora visitarono diversi impianti nelle province di Napoli, Salerno e Caserta: l’impianto di incenerimento di Acerra era stato da poco avviato, l’impianto salernitano per il trattamento dell’umido era in corso di allestimento, erano ancora forti gli echi degli anni più critici, la percentuale di raccolta differenziata nella regione non arrivava al 40 percento.
Professore, cosa ricorda di quell’esperienza del 2011?
«L’idea di compiere un tour degli impianti campani, simpaticamente battezzato “Spazza-Tour”, scaturì da un’iniziativa degli studenti. L’emergenza rifiuti in Campania aveva invaso le cronache, era considerata un caso a livello internazionale, ma allo stesso tempo si intravedevano i germogli di una nuova stagione, con l’avvio di impianti quali quelli di Acerra e di Salerno, seppure in un clima ancora di forte tensione. A distanza di un decennio, posso dire che quella esperienza resta irripetibile, non abbiamo mai organizzato nulla che abbia avuto un impatto altrettanto forte sui ragazzi».
Quali furono all’epoca le impressioni riportate dai suoi studenti?
«Alcuni fotogrammi restarono molto impressi: i siti militarizzati, circondati dal filo spinato, l’impianto di Acerra presidiato dall’Esercito, i cosiddetti Stir che ci sembrarono a quel tempo inadeguati, le piramidi di ecoballe che trasmisero ai ragazzi la sensazione di vivere un’esperienza avventurosa. Bisogna dire, però, che l’impianto di Acerra ci apparve da subito all’avanguardia, e ancora oggi resta uno dei più avanzati in Italia sul piano dell’efficienza energetica. Di sicuro ha dato una svolta determinante alla gestione dei rifiuti urbani indifferenziati, tanto che oggi la Campania è tra le regioni che meno di tutte invia i propri rifiuti in discarica».
Ci sono altre evoluzioni positive registrate in questi anni?
«Ovviamente, occorre citare la differenziata, che ha fatto un salto in avanti notevole, forse solo la Sardegna ha corso altrettanto veloce: il risultato è che sembra tramontata per la Campania l’idea di dotarsi di un secondo impianto di incenerimento. Anche l’impianto di Salerno per il trattamento dell’umido, all’epoca vicino all’inaugurazione, ci sembrò un segnale molto promettente, anche se poi non ha avuto la stessa continuità di quello di Acerra».
Avete mai pensato di ripetere il tour degli impianti campani, a distanza di un decennio?
«Sì, c’era questa idea, ma per ora la pandemia ha bloccato tutto. Però la gestione dei rifiuti urbani in Campania è ancora oggetto di studio nel nostro corso di laurea, anche grazie ai dati sul tracciamento dei rifiuti, a cui l’Arpa Campania fornisce un contributo determinante, in particolare ad opera dai tecnici della Sezione regionale del Catasto rifiuti con cui è nato un rapporto di collaborazione ormai storico. In linea generale, i passi avanti compiuti in questi dieci anni sono evidenti, frutto del protagonismo di molti attori, a cominciare dai Comuni (sebbene con qualche differenza tra diverse porzioni di territorio), ma penso anche ai consorzi come il Conai. Tuttavia i problemi emergono non appena si prova a scavare dentro i dati».
Quali criticità permangono?
«La regione sconta ancora significative carenze infrastrutturali, soprattutto per alcune componenti come l’organico. Una percentuale maggioritaria dei rifiuti organici campani viene inviata fuori regione: questo incide soprattutto sui costi, che possono raddoppiarsi o anche triplicarsi, con evidenti ripercussioni sulle tasse pagate dai cittadini. Inoltre incide sulla tutela dell’ambiente, perché l’immondizia viaggia producendo emissioni e altri tipi di impatto ambientale».
Quali sono i fattori che frenano l’autonomia della Campania?
«Negli ultimi anni si sono registrati progressi anche sul fronte dell’impiantistica, e infatti, se restiamo sull’analisi dei flussi di materia organica, la percentuale di rifiuti trattenuti in Campania è relativamente aumentata. Tuttavia la strada è ancora lunga, e il rischio è che si sia raggiunto una sorta di equilibro, con aziende di altre regioni che trovano redditizio trattare rifiuti campani: uno status quo che può frenare lo sviluppo dell’impiantistica locale. Poi ovviamente pesa la contestazione dei cittadini alla realizzazione degli impianti: ho seguito di recente un caso a Benevento, ma posso dire che è un fattore che accomuna molte regioni, situazioni di questo tipo mi sono state segnalate di recente in Puglia, nelle Marche e in altri territori».
Eppure, spesso, si tratta degli stessi cittadini che collaborano positivamente alla differenziata.
«Esatto, la risposta dei cittadini campani è stata molto positiva sull’impegno per la differenziata, non altrettanto sulla disponibilità ad accogliere impianti. Forse, qui come altrove, non si ricorda abbastanza che si tratta di impianti di pubblica utilità, al servizio della comunità. Alcuni attivisti indicano la possibilità di realizzare molti micro-impianti, con una logica quasi a chilometro zero. Ma anche questa soluzione porrebbe problemi di gestione e possibili fastidi per il vicinato. Piuttosto, bisognerebbe pretendere che gli impianti vengano realizzati e gestiti bene».
Crede che il ruolo dell’Arpa, qui come in altre regioni, possa essere rafforzato in questo ambito?
«In questo ambito il ruolo delle Arpa è già molto ampio, poi come è noto le Agenzie non si occupano solo di rifiuti. Sono impegnate su innumerevoli fronti, spesso con organici non adeguati ai compiti assegnati. Quindi non mi sentirei di formulare delle proposte in questo senso. Il mio giudizio nei confronti del Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente è positivo e in particolare il coordinamento nazionale mi sembra rafforzato negli ultimi anni».
Per chiudere, alcuni luoghi comuni da sfatare sui rifiuti?
«Rapidamente, ne cito un paio: che la plastica sia sempre più inquinante del vetro. Una bottiglia di vetro pesa circa venti volte più di una bottiglia di plastica, e gli impatti ambientali dipendono anche dal peso. Poi, non sappiamo ancora se la pandemia abbia effettivamente aumentato la produzione di rifiuti plastici. Non abbiamo ancora dati robusti in materia: certo, abbiamo le mascherine, i bicchieri monouso dilagano, ma per altri versi la produzione di rifiuti è frenata dal generale rallentamento dell’economia. Per un bilancio complessivo è ancora presto».
(a cura di Luigi Mosca – Arpa Campania)
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