Il ciclo di giornate scientifiche dedicate all’ambiente, reso possibile grazie agli accordi quadro stipulati tra ARPA Toscana e gli Atenei toscani, ha preso avvio con una lezione sul clima e sulla giustizia climatica tenuta da Giacomo Vivoli, professore a contratto del Dipartimento di scienze giuridiche dell’Università degli Studi di Firenze.
Il Direttore generale, Pietro Rubellini, ha introdotto questa prima giornata di studio e formazione interna, ricordando come “Il cambiamento climatico sarà il problema del terzo millennio” e ha proseguito sottolineando come, al momento, l’Agenzia non abbia competenze in questa materia ma l’intenzione della Regione Toscana sia quella di assegnare specifici compiti al nostro ente nel prossimo futuro. Volontà confermata anche da Monia Monni, assessora regionale all’ambiente, intervenuta da remoto all’iniziativa, confermando che, a livello regionale, è in via di elaborazione un piano per la transizione ecologica, con l’obiettivo di raggiungere la neutralità carbonica prima del 2050, termine fissato dall’Unione Europea. Il piano si compone di due parti, la prima sulle azioni di lotta ai cambiamenti climatici e la seconda dedicata alla resilienza e all’adattamento del territorio toscano. Fanno da corollario le scelte strategiche fatte dalla Regione in materia di economia circolare e transizione energetica.
Giacomo Vivoli, nel suo intervento, richiama un dato: 440 ppm (particelle per milione), che si riferisce all’attuale concentrazione di anidride carbonica in atmosfera. Questo dato per circa 10.000 anni si è mantenuto costante, attestandosi a circa 300 ppm. Con l’inizio dell’industrializzazione questo valore ha iniziato a crescere, prima gradualmente, e poi in maniera più accelerata fino a raggiungere il preoccupante valore attuale.
Per combattere il cambiamento climatico e gli effetti ad esso collegati dobbiamo invertire la rotta e ridurre le emissioni in atmosfera di gas ad effetto serra, riducendo, in primis, la concentrazione di CO2 in atmosfera.
La questione interessa tutti i paesi del mondo, quindi dobbiamo chiederci come possiamo raggiungere questo obiettivo in un contesto internazionale. Gli Stati, sottolinea Giacomo Vivoli, possono agire, a livello internazionale, con gli strumenti del diritto internazionale pattizio, con cui possono affrontare e disciplinare importanti questioni legati alla protezione dell’ambiente e alla lotta al cambiamento climatico.
Vediamo i più importanti.
Nel 1972, al motto “noi abbiamo una sola terra”, con la Conferenza di Stoccolma nasce il primo nucleo di quello che diventerà, nel tempo, il diritto internazionale ambientale, sancendo il legame profondo tra uomo e ambiente.
Vent’anni dopo, nel 1992, a Rio de Janeiro, sotto la spinta del Rapporto Brundtland, la cui architrave poggia sul concetto di sviluppo sostenibile, la conferenza delle Nazioni Unite, Rio+20, lancia un nuovo approccio alle tematiche ambientali basato proprio sul principio dello sviluppo sostenibile.
Nello stesso anno, 1992, la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici affronta il tema del clima e dei suoi mutamenti. Si tratta di una Convenzione internazionale fondamentale ma dal contenuto volutamente generico, infatti, l’impegno è quello di stabilizzare l’emissione di gas ad effetto serra entro un certo periodo di tempo ma non precisato.
Il contenuto della convenzione è astratto in quanto l’idea è di delegare alla conferenza delle parti (COP) le concrete modalità per procedere alla riduzione e alla stabilizzazione dei gas serra nell’ambiente. La Conferenza delle parti (COP) si riunisce ogni anno con il compito di valutare lo stato di attuazione della Convenzione sui cambiamenti climatici e elaborare protocolli specifici per la riduzione dei gas serra che ogni Stato è chiamato ad attuare in un periodo di tempo prestabilito.
Uno degli atti integrativi più importanti della convezione sui cambiamenti climatici è il Protocollo di Kyoto, adottato nel 1997, nel corso della terza conferenza delle parti (COP3).
Il Protocollo, frutto di impegnativi compromessi negoziali, rappresenta un salto di qualità in quanto:
- fissa un preciso obiettivo di riduzione delle emissioni di gas inquinanti pari al 5% rispetto a quelle rilevate nel 1990 attraverso una serie di impegni da realizzarsi tra il 2008 e il 2012;
- stabilisce livelli diversi di responsabilità in capo ai singoli Stati con riferimento all’inquinamento atmosferico, individuando 3 diverse tipologie di paesi con differenti responsabilità e quindi compiti e obiettivi diversi. Si distinguono i paesi in via di sviluppo, per i quali non sono previsti obiettivi di riduzione di gas a effetto serra ma semplici vincoli di cooperazione e scambio di informazioni, paesi in transizione verso un’economia di mercato, che hanno obblighi ridotti ed infine paesi economicamente avanzati, per i quali si stabiliscono precise percentuali di riduzione (es Unione Europea: meno 8%).
Il protocollo di Kyoto, partendo dal principio di flessibilità, prevede altresì un sistema di scambi di permessi di emissione, in sostanza possibilità di acquisto e vendita, con certificati bianchi/verdi, senza però alterare le percentuali stabilite.
Al protocollo di Kyoto hanno fatto seguito molti altri incontri (Conferenza di Marrakesh, 2001, di Bali, 2007, di Copenaghen, 2009, Durban, 2011, Doha, 2012, Varsavia, 2013 e Lima, 2014) che non hanno prodotto nuovi accordi vincolanti fino alla Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, climate change, tenutasi a Parigi nel 2015 (COP21). Solo in quest’occasione 196 paesi, tra cui Cina e USA, hanno raggiunto, faticosamente, un nuovo accordo globale sul clima.
L’accordo di Parigi si prefigge obiettivi di medio-lungo periodo, puntando a contenere, a fine secolo, il riscaldamento terrestre ben al di sotto dei 2°C rispetto all’epoca pre-industriale. L’elemento positivo di questo accordo sta nel fatto che delinea una strategia unitaria anche se non perfetta in quanto frutto di estenuanti negoziazioni tra gli Stati con politiche e strategie molto diverse tra loro.
L’accordo prevede impegni differenziati, più gravosi per i paesi sviluppati/industrializzati, responsabili storici dell’inquinamento ed un meccanismo di solidarietà per i paesi meno sviluppati, in via di sviluppo, che sono quelli che subiscono maggiormente gli effetti dei cambiamenti climatici, pur non essendo responsabili dell’inquinamento atmosferico.
L’accordo di Parigi è entrato in vigore, in tempi record, il 4 novembre 2016 (l’Italia ha provveduto alla ratifica con la legge 204/2016) e, ad oggi, gli Stati nel mondo hanno nella loro agenda politica, seppure in modo diversificato, il tema del cambiamento climatico. L’accordo in questione, come anche il protocollo di Kyoto, per divenire vincolante richiedeva la ratifica da parte di almeno 55 paesi che siano produttori di oltre il 55% dei gas serra.
Quando si parla di cambiamento climatico si parla anche di giustizia climatica. Infatti sono sempre più numerosi i giudizi davanti ai tribunali che vertono sul tema del clima, intentati da attori diversi: la pubblica amministrazione contro un’impresa che inquina o la società civile contro un’attività industriale inquinante o contro lo Stato inadempiente rispetto alla normativa internazionale, europea o nazionale in materia di tutela dell’ambiente e lotta ai cambiamenti climatici.
Uno dei problemi delle controversie in materia di “giustizia climatica” è quello della legittimità ad agire degli attori, ovvero comprendere se gli attori possono attivare il giudizio davanti ad un tribunale, la questione è strettamente legata alla natura giuridica del “diritto al clima”: diritto soggettivo, interesse legittimo o collettivo?
La situazione varia da paese a paese in quanto ogni Stato ha un diverso ordinamento giuridico con disposizioni normative che disciplinano, in modo diverso, la legittimità ad agire in giudizio, come possiamo vedere mettendo a confronto il caso Urgenda e Klimashutzgesetz.
Seppur diverse in termini di legittimità ad agire, queste due sentenze sono accomunate dal fatto che i giudici, olandesi e tedeschi, fanno entrambi riferimento ai dati scientifici per giungere al giudizio finale.
Nel primo, il caso Urgenda, la premessa è questa: l’Olanda aveva fissato con legge una riduzione delle emissioni in atmosfera dal 14-17%, Urgenda, fondazione che si occupa di ambiente, basandosi su studi scientifici, aveva chiamato in causa lo Stato, sostenendo che, in base agli studi scientifici, lo Stato avrebbe dovuto fare di più, riducendo le emissioni del 25-40%.
Il giudice olandese, con riferimento alla questione della legittimità ad agire, ha riconosciuto ad Urgenda la facoltà di agire in quanto l’ordinamento giuridico olandese prevede la class action, che garantisce alle fondazioni la possibilità di agire in giudizio. In Italia questa possibilità non è contemplata, solo le associazioni ambientaliste riconosciute hanno legittimità ad agire in giudizio. A queste si possono, poi, affiancare altre associazioni, non riconosciute, ma in possesso di alcuni requisiti che rendono possibile agire in giudizio, come accaduto nell’unico caso italiano di “giustizia climatica”.
Nel caso Urgenda, il giudice ha condannato lo Stato olandese senza mettere in discussione quanto stabilito a livello politico, senza, cioè, creare un conflitto tra poteri dello Stato, garantendo quindi la ripartizione del potere: legislativo, esecutivo e giudiziario, assicurata grazie al richiamo a quanto affermato dalla scienza. Infatti, il giudice olandese ha motivato la sua decisione affermando che, nonostante l’Olanda avesse preso impegni importanti e firmato trattati internazionali in materia di clima e lotta ai cambiamenti climatici, aveva poi, arbitrariamente, ridotto, in percentuale, il taglio delle emissioni in atmosfera, senza fornire spiegazioni scientifiche e in contrasto con quanto sostenuto dalla scienza.
Diverso il caso Klimashutzgesetz per quanto riguarda l’aspetto della legittimità ad agire ma non nel richiamo alla scienza operato dai giudici per motivare la propria decisione.
Per quanto riguarda il primo aspetto, la legge tedesca riconosce a tutte le persone fisiche, anche ai non cittadini tedeschi, la possibilità di agire in giudizio per fare valere la violazione di diritti fondamentali quali il diritto alla vita, alla proprietà privata e altri diritti fondamentali dell’essere umano ma non riconosce tale possibilità alle associazioni ambientaliste in quanto persone giuridiche.
Per quanto attiene, invece, alla necessità di rispettare quanto stabilito dalla politica e non violare la ripartizione tra i poteri dello Stato, il ragionamento del giudice tedesco è stato il seguente.
La Corte federale è partita esaminando quanto stabilito dalla legge federale tedesca del dicembre 2019. Questa imponeva l’obiettivo di ridurre, entro il 2030, del 55% le emissioni in atmosfera rispetto ai livelli del 1990 per poi raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, prevedendo uno step intermedio, al 2025, per rivedere gli obiettivi di riduzione e definire come procedere nel post 2030.
Il giudice tedesco sottolinea il fatto che nel 2025, anno di revisione della legge federale sul clima, per fare fronte alla necessità di ridurre le emissioni in atmosfera, potrebbero essere necessarie politiche talmente restrittive da comprimere la vita stessa o i diritti fondamentali delle future generazioni.
Lo Stato è tenuto, quindi, ad effettuare una pianificazione delle politiche ed applicare il principio di precauzione. La mancanza di una precisa programmazione a livello statale non può rischiare di trasformarsi in un carico sproporzionato ed esclusivo in capo alle future generazioni.
La Corte ha affermato in sostanza che le eccessive emissioni in atmosfera di sostanze inquinanti violino i diritti fondamentali delle persone, mettendo, persone e diritti inviolabili, a repentaglio nel presente ma ancora di più nel futuro in mancanza di una seria valutazione del rischio, che deve essere proporzionato e tener conto del principio di precauzione.
Questa sentenza ha determinato un cambio di rotta nell’ordinamento giuridico tedesco, ma senza creare problemi di conflitti tra i diversi poteri dello Stato. A seguito di questa sentenza, la normativa tedesca è stata modificata tenendo conto di quanto affermato dalla scienza: è stata aumentata la percentuale delle emissioni da ridurre e anticipato l’obiettivo della neutralità climatica proprio nel rispetto della vita e dei diritti fondamentali delle future generazioni.
Il riferimento alla tutela e protezione delle future generazioni è un elemento di novità in molti ordinamenti, anche in Italia, dove le recenti modifiche della Costituzione hanno introdotto nella nostra Carta costituzionale l’ambiente, gli ecosistemi e della biodiversità tra i valori costituzionalmente riconosciti, facendo esplicito riferimento alle generazioni future. Il legislatore costituzionale, come sottolineato da autorevole dottrina, ha voluto tutelare i giovani e chi verrà, garantendo loro un ambiente salubre dove sia possibile continuare a vivere, perchè in pericolo non è il Pianeta ma la sopravvivenza degli esseri umani.