A seguito di un incontro con il l’Ing. Giovanni Ferrara, Professore Associato presso il Dipartimento di Ingegneria Industriale (DIEF) dell’Università di Firenze, docente dei corsi e “Motori a Combustione Interna” e “Sviluppo e Innovazione nei Motori a Combustione Interna”, abbiamo pubblicato un articolo sul coinvolgimento dei motori diesel alle emissioni inquinanti nei centri urbani.
Questa volta, invece, approfondiamo le prospettive ed i limiti del veicolo elettrico, preceduto da un breve escursus storico in grado di rilevare interessanti analogie ed intuizioni con le odierne tecnologie del settore. (del tema, vedi in calce all’articolo, abbiamo più volte parlato su queste pagine, da diversi punti di vista)
Il fermento industriale non esclude nessuna possibilità
Agli albori della motorizzazione, tutti i metodi di propulsione possibile venivano utilizzati ed i registri di iscrizione alle prime gare svolte sul finire del XIX° sec. riportavano veicoli azionati a propulsione idraulica, ad aria compressa, a liquidi combinati, elettrici, semielettrici ed a gas compresso. Saranno poi le tecnologie costruttive ed il mercato, sul volgere del secolo, a far gareggiare i soli due tipi di propulsione rimasti, elettrica e termica.
A partire dal 1910, sarà il motore termico a prevalere anche e soprattutto nella rimodulazione delle giovani industrie nazionali, obbligate a rivedere le loro produzioni in vista della preparazione allo sforzo bellico. Un ineludibile sviluppo tecnologico che questo infausto evento avrebbe imposto al motore termico ed all’uso delle fonti fossili.
I motivi che stanno alla base della concorrenza tra i due motori è da rintracciare nelle caratteristiche che il motore elettrico ha evidenziato fin da subito. L’auto elettrica presentava un numero assai minore di problemi rispetto a quella a vapore ed a quella con motore a scoppio e la sua costruzione poteva pertanto essere più facilmente affrontata in sede artigianale. Il motore a corrente continua era ormai soddisfacentemente perfezionato, gli accumulatori a piombo ugualmente: erano perciò disponibili tutti gli elementi base dell’automobile elettrica. Tra il 1881 e la fine del secolo numerosi veicoli elettrici costruiti conseguirono risultati sensazionali in fatto di velocità rispetto a motori termici, dove però l’auto elettrica risultava inguaribilmente deficitaria era l’autonomia, che ne decretò l’abbandono intorno al 1910.
Nel 1894 l’Ingegnere meccanico Henry Morris ed il chimico Pedro Salomon fondano a Filadelfia la “Electric Carriage and Wagon Company” conosciuta poi come “Electrobat” considerata negli USA tra i più importanti pionieri delle vetture a propulsione elettrica. Le vetture vengono principalmente usate come taxi (vetture di piazza) perché silenziose e capaci di non impaurire i cavalli ma in grado anche di non importunare le persone con rumori e fumi maleodoranti.
La “Elecrobat” aprì la strada ad un sistema innovativo di taxi che includeva stazioni di servizio per il cambio rapido dei set di batterie ed in grado di fornire assistenza e manutenzione per le riparazioni necessarie (si noti che l’idea del servizio di cambio batteria scarica con una carica invece della ricarica sul veicolo è uno dei business model oggi sotto analisi).
I veicoli erano solo in affitto e non venduti (una sorta di leasing dei tempi nostri), il sistema del noleggio dei taxi dopo Filadelfia e New York, tra il 1897 ed il 1899 , approdò anche Chicago, Boston e Washington DC. La “Compagnie Parisienne des Voitures Electriques” produsse a Parigi tra il 1897 ed il 1909 vetture a propulsione elettrica a marchio Kriéger, l’attività della casa francese sarà intensa non solo in madrepatria ma anche nel resto d’Europa, in Inghilterra, in Italia ed in Germania dove rispettivamente la “British Electromobile” la S.T.A.E. (Società Torinese Automobili Elettrici) e la “Namag”, otterranno la licenza di fabbricazione delle Krièger.
Queste vetture si caratterizzano per silenziosità ed affidabilità, presentando importanti innovazioni: sono il primo esempio di auto dotate di trazione anteriore, oltre ad essere alimentate da due motori elettrici che agiscono in parallelo sulle ruote anteriori (soluzione oggi tipicamente adottata per permettere un miglior controllo della dinamica auto). Viene previsto che i motori elettrici permettano anche di rallentare, ottenendo così una frenata meccanica sulle ruote posteriori ed elettrica sulle anteriori (è il principio della frenata rigenerativa delle attuali auto elettriche e ibride).
La società inizia l’attività producendo un veicolo capace di sviluppare una velocità massima di 24 km/h ed un’autonomia di 60 km (si consideri che è leggermente sotto il livello di performance di una bicicletta a pedalata assistita di oggi).
La società italiana STAE non limitò la sua produzione su licenza francese ai soli motori elettrici ma ampliò la sua produzione a modelli, come diremmo oggi ibridi, combinando il motore a benzina con l’elettrico. Aveva dotato i suoi veicoli di due motori elettrici a trasmissione cardanica, alimentati da un motore a benzina con alternatore (sostanzialmente un veicolo ibrido-serie). La sua produzione, oltre alle vetture, comprendeva anche camion elettrici ad accumulatori, sempre su brevetti Krieger. Per le vetture di sua produzione, la STAE riuscì a ridurre il peso a 800 kg e ad aumentare l’autonomia fino a distanze di 80 km.
La ripresa dell’elettrico nel trasporto privato dagli anni 60 ad oggi
Nella seconda metà degli anni 60 saranno la Ford in Gran Bretagna e la General Motors (GM) negli USA e ad iniziare studi per la presentazione di prototipi elettrici alle rassegne internazionali, quasi ad indicare l’impegno delle economie occidentali ad intraprendere un possibile processo di affrancamento dai paesi arabi, maggiori produttori di petrolio.
Nel 1967 il ramo inglese della Ford inizia a sperimentare il prototipo “Comuta”, una piccola vettura a due soli posti che ha un raggio di autonomia di 60 km e la cui velocità non supera i 40 km/h, debutterà nel 1970 come prototipo sperimentale. La GM inizierà nel 1969 lo studio di una piccola vettura a 4 posti la XP-883 mossa da un motore ibrido, biciclindrico a benzina combinato con uno elettrico o come diremmo oggi una “plug-in hybrid electric vehicle” (PHEV). Il motore elettrico azionava la vettura fino a quando non raggiungeva la velocità di 16 km/h, dopodiché si avviava il motore bicilindrico a benzina di 571 cm3. La vettura venne presentata a Washington nel 1974 come studio/prototipo.
Nel 1974 la Fiat presenta al Salone di Torino la X1/23, una piccola auto a due posti, il motore elettrico, alimentato da batterie convenzionali al piombo e sostituite successivamente, con l’aggiornamento del prototipo nel 1979, da batterie nichel-zinco in grado di fornire una potenza di 13,5 cv tale da permettere al veicolo di raggiungere i 70km/h con un’autonomia stimata tra i 50 e gli 80 km. La nuova versione del prototipo disponeva anche di un dispositivo elettromeccanico in grado di recuperare parte dell’energia cinetica durante le fasi di frenata e capace di trasformarla in energia meccanica o elettrica, nuovamente spendibile per la trazione del veicolo o per l’alimentazione dei suoi dispositivi elettrici. In altre parole, il congegno, permetteva la ricarica delle batterie durante la frenata, quello che oggi viene chiamato, sistema di recupero dell’energia cinetica KERS (Kinetic Energy Recovery System ).
Nel 1990 la Fiat inserisce nel suo listino vendite la Panda Elettra e ci rimarrà fino al 1998. Dotata di un motore elettrico di 14Kw, era alimentata da 12 batterie al piombo da 172 Ah posizionate al posto del divanetto posteriore e del bagagliaio, che le permettevano una velocità massima di 70 km/h, le davano un’autonomia di 100 km ma che necessitavano dalle 8 alle 10 ore per essere ricaricate. Inoltre il costruttore ne consigliava la sostituzione ogni 35.000 km ad un prezzo di 2.500.000 lire. Nella Panda Elettra II, che succederà alla prima versione dal 1992, le batterie al piombo saranno sostituite da più moderne ed affidabili elementi al nickel-cadmio capaci di garantire una maggior durata.
Attualmente si sta assistendo ad una forte tendenza all’elettrificazione dei sistemi e questo non solo in ambito automobilistico. Certamente sul mercato delle quattro ruote il veicolo puramente elettrico (BEM – Battery Electric Vehicle) è ancora una rarità (inferiore all’1%) ma in generale si sta assistendo ad una sempre maggiore componente di motorizzazione elettrica in affiancamento a quella termica nei cosiddetti veicoli ibridi.
Se si considera che il sistema Start&Stop è già una prima tipologia di veicolo ibrido (detto Micro-Hybrid) possiamo asserire che ormai il 100% della produzione attuale di veicoli è da considerarsi, a vario titolo, esclusivamente di veicoli ibridi o elettrici.
Oltre al Micro-Hybrid, possiamo suddividere i veicoli ibridi in Mild Hybrid, Full Hybrid e Plug-in Hybrid. Il Mild Hybrid è il primo livello di vera sinergia tra motore elettrico e termico, prevedendo la sostituzione del tradizionale alternatore con un motore-generatore-alternatore (a cinghia o direttamente calettato sull’albero motore) in grado sia di coadiuvare il motore termico nella generazione di potenza che di recuperare energia in fase di rilascio o in situazioni in cui questo rappresenti un uso più razionale del motore termico. Le versioni base sono quelle a 12 volt che permettono però potenze elettriche dell’ordine dei 2 kW, mentre quelle a 48 volt sono più efficaci potendo garantire potenze elettriche fino a 15 kW. In entrambi i casi la batteria del veicolo (tipicamente al litio) funziona da stoccaggio per garantire flussi elettrici in positivo o in negativo che garantiscano un impiego efficiente dell’energia.
La vettura fornita del sistema Mild Hybrid consente al motore termico di ridurre i consumi e, di conseguenza, le emissioni, sia pure in misura inferiore rispetto ad un Full Hybrid. Nelle Full Hybrid il recupero dell’energia in fase di frenata può essere molto maggiore (il motore/generatore elettrico ha una taglia molto maggiore) e soprattutto è possibile gestire in maniera molto più flessibile l’impiego del motore termico in modo da farlo lavorare solo in condizioni di elevato rendimento. Questo permette di ridurre consumi ed emissioni (sia tossiche che CO2) del motore termico.
Le batterie delle auto ibride non sono ricaricate da fonti esterne ma ricevono energia solo dal motore termico o dalle fasi di frenata, hanno una capacità limitata e consentono di far funzionare l’auto in modalità elettrica solo per un tratto “range“ molto contenuto (tipicamente 1-2 km). Il vantaggio delle auto Full Hybrid sta nel non richiedere all’utente particolare impegno o attenzione: l’utente non deve cambiare le sue abitudini in quanto il rifornimento (di benzina o di gasolio) avviene esattamente come per una macchina tradizionale e l’autonomia è assolutamente dello stesso livello.
Con il sistema Plug-in Hybrid si hanno sostanzialmente gli stessi vantaggi di una Full-Hybrid ma, grazie ad un dimensionamento più generoso delle batterie e alla possibilità di ricaricarle come fossero veicoli puramente elettrici, è possibile viaggiare in sola modalità elettrica per qualche decina di km. Ovviamente, una volta finita la riserva di energia elettrica immagazzinata, l’auto può comunque lavorare sfruttando il motore termico (e il suo combustibile) esattamente come in una Full-Hybrid. Chiaramente, anche quando le batterie sono cariche, la vettura, oltre che in solo elettrico, può procedere anche in modalità ibrida soprattutto se sono richieste alte prestazioni (per le quali occorre l’impiego combinato dei motori elettrico e termico).
Le Plug-in Hybrid soggette a ricarica esterna possono potenzialmente offrire un considerevole vantaggio in termini di riduzione dei consumi e di emissioni di CO2 , grazie alla maggiore autonomia di funzionamento in modalità puramente elettrica. D’altra parte, si tratta di auto più complesse, a causa della presenza, oltre che del motore generatore, di batterie al litio più grandi e di dispositivi di ricarica (presa, cavi, caricatore di bordo). Sulle Hybrid Plug-In gli accumulatori sono solo agli ioni di litio, perché garantiscono una maggiore densità di energia: l’autonomia in modalità solo elettrica arriva così a circa 30/50 km e la loro ricarica è possibile attraverso le prese domestiche (tipo Schuko) o colonnine pubbliche.
In estrema sintesi la trazione ibrida ha la finalità di utilizzare il combustibile in modo più efficiente: l’impiego del motore elettrico permette di sfruttare in maniera più efficiente il motore termico e permette di recuperare, almeno parzialmente, l’energia altrimenti dissipata durante le fasi di frenata. Tali positivi effetti hanno efficacia crescente nel passare dal micro al mild al full Hybrid.
La possibilità di viaggiare, seppur per tragitti contenuti, con energia elettrica direttamente prelevata dalla rete, permette ad un plug-in Hybrid di “assaggiare” le caratteristiche di un veicolo full electric senza in maniera molto semplice per l’utente. Chiaramente questo lo si paga con una complessità del veicolo, e un conseguente costo di acquisto, molto superiori.
Le fonti energetiche disponibili
In ambito europeo, non possiamo non rilevare che le fonti energetiche di cui si approvvigiona, ad esempio, la Germania sono meno eco-compatibili di quelle dell’Italia che fa derivare una grossa parte del suo fabbisogno energetico da energia rinnovabile (oltre il 35%), in particolare idraulica ma anche geotermica, solare ed eolica.
In Polonia ad esempio, quasi la totalità dell’energia deriva ancora da centrali a carbone mentre la vicina Francia, seppur utilizzi pochissime fonti fossili, impiega centrali nucleari per circa l’80% del suo approvvigionamento energetico. Tenere in considerazione le modalità di produzione dell’energia elettrica in un paese è importante per poter poi progettare una rete di somministrazione di energia per i veicoli a trazione elettrica che possa essere il più possibile allineata all’obiettivo di abbattimento di emissioni inquinanti e di CO2 che il veicolo elettrico emette durante tutto il suo ciclo di vita. Quindi andare verso l’elettrico acquisisce senso se anche le politiche di approvvigionamento energetico dei paesi si spostano verso le fonti rinnovabili.
La soluzione sono i veicoli elettrici?
L’obiettivo primario di contenere la presenza di inquinanti (NOx, CO, HC, Polveri sottili) nei centri urbani ha portato ad individuare nel veicolo elettrico la soluzione più efficace. D’altra parte si tende spesso a confondere le emissioni di inquinanti tossici con quelle di CO2 che è un gas clima-alterante.
In questo senso l’affermazione “emissioni zero” che spesso accompagna le pubblicità dei veicoli elettrici è da considerare con attenzione perché sia la produzione e lo smaltimento del veicolo che la produzione dell’energia elettrica che lo alimentano sono tutt’altro che ad emissioni zero. Pertanto, risalendo nella filiera produttiva, l’energia elettrica necessaria da qualche parte è stata sicuramente prodotta ed è anche molto probabile che derivi da combustibile fossile. Si parla in questo caso di emissioni inquinanti “indirette” in atmosfera che si sono verificate comunque ed in particolare di CO2.
D’altra parte è ben noto che che l’energia elettrica non si trova in natura ma va prodotta e, ancora oggi, per la maggior parte anche in Europa, lo si fa utilizzando combustibile fossile. Questo implica che si introduce comunque CO2 in ambiente. Considerato che la CO2 non è un problema locale ma è un problema globale possiamo affermare che considerare il veicolo elettrico a zero emissioniè solo parzialmente vero; diventa del tutto vero nel caso in cui tutta l’energia necessaria alla sua produzione, al suo esercizio e al suo smaltimento derivi interamente da fonti rinnovabili. E questo è attualmente un’utopia.
Attualmente si sta assistendo ad una sempre maggior convergenza tra i soggetti interessati ad incentivare il passaggio all’elettrico, (amministrazioni, società di erogazione di energia, produttori di veicoli) ma attualmente non appare essere la soluzione definitiva anche se è innegabile il valido contributo che questa tecnologia può dare nella diminuzione sia degli inquinanti a impatto locale che dei gas climalteranti.
Quali problemi per la diffusione dei veicoli elettrici?
Tornando al veicolo elettrico un altro fattore di cui tener presente sono le procedure industriali inerenti le filiere di smaltimento delle batterie/accumulatori che ad oggi risultano usufruire di energia proveniente da fonti fossili e pertanto produttrici di CO2 derivanti dalle emissioni inquinanti “indirette”. Per i tre fattori, processo di produzione, smaltimento e produzione di energia da immagazzinare per la trazione, i veicoli a trazione termica sia diesel che benzina producono una quantità minore di CO2 rispetto ai veicoli elettrici.
In una civile abitazione ad oggi l’energia elettrica somministrata ha una potenza massima tipicamente pari a 3 kW ma per poter disporre di un punto di ricarica adeguato per impiantistica e potenza di erogazione, capace di supportare il “rifornimento” di un veicolo elettrico, occorre attivare un contratto di almeno 6-10 kW. Ciò non rappresenta di per sé un problema almeno finché il fenomeno rimane limitato a poche famiglie. Qualora il veicolo elettrico si diffondesse in maniera più massiccia si dovrebbe invece passare ad una rivisitazione profonda di tutta la rete elettrica.
Se facciamo l’ipotesi di far raggiungere all’elettrico il 30% sul totale dei veicoli venduti (obiettivo spesso ritenuto raggiungibile in 5-10 anni) per il trasporto privato e consideriamo che, secondo i dati ACI, ogni auto in Italia percorre una media di 10.000 Km l’anno, considerando che un veicolo elettrico necessita di circa 15kWh per 100km, ne deriva che l’energia elettrica da aggiungere a quella già prodotta per l’attuale fabbisogno nazionale, si aggirerebbe sull’ordine del 5-6%. Si tratta di una quota certamente non trascurabile da aggiungere a quella già attualmente prodotta anche perché non avrebbe senso pensare di produrla da fonti fossili altrimenti il vantaggio ambientale si perderebbe completamente (anzi sarebbe decisamente più efficace utilizzare veicoli Diesel).
Ecco allora che diventa importante capire che tipo di visione/scelta energetica ha individuato il paese per attuare in maniera parallela ed allineata il passaggio al trasporto elettrico. E su questo elemento si giocano anche quote di tributi, tasse, di spostamenti di accise e di pressione fiscale, tutti elementi di un risvolto di cui occorre tenere conto. Incentivare il solo veicolo elettrico, senza una rimodulazione delle fonti energetiche e delle fasi di produzione e smaltimento che lo interessano, appare un processo incompleto o quantomeno con delle zone d’ombra.
Allo stesso tempo sembra abbastanza improbabile la creazione di un mercato privato di auto elettriche perché la loro gestione soprattutto in relazione alla ricarica delle batterie e al costo indiretto legato al loro invecchiamento non è semplice. E’ auspicabile che le batterie/accumulatori e le ricariche siano gestite da aziende specializzate che gestiscano sistemi di car sharing e questo ovvierebbe anche al problema della realizzazione di infrastrutture per attivare le singole utenze.
Testo di Sergio Lavacchini
Fonti di approfondimento:
- Marco Matteucci “Storia dell’automobile” Ed. Ediprint 1967
- Ferruccio Bernabò “Enciclopedia dell’automobile” Realizzazione Pininfarina Ed. Fratelli Fabbri Editori 1967
- Enciclopedia dell’auto istituto Geografico De Agostini S.p.a Novara 1987
- L’automobile marche e modelli dalle origini ad oggi a cura di V. Berruti e A. Magistà Ed. Gruppo Editoriale l’Espresso 2009
- Promozione dei veicoli puliti ed a basso consumo
- Mobilità Emissioni Zero – MEZ
- Cicli di vita dei veicoli elettrici e prospettive di economia circolare
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