A seguito di un incontro con l’Ing. Giovanni Ferrara, Professore Associato presso il Dipartimento di Ingegneria Industriale (DIEF) dell’Università di Firenze, docente del corso “Motori e Macchine Volumetriche” e di “Sviluppo e Innovazione nei Motori a Combustione Interna” e dopo aver seguito il suo intervento nel marzo 2019 nell’ambito dell’iniziativa “Incontri con la città – leggere il presente per comprendere il futuro” dal titolo “Benzina, Diesel, elettrico … di cosa si nutriranno le nostre auto in futuro?”, la nostra redazione ha chiesto il suo contributo per tentare di fare chiarezza sul reale coinvolgimento dei motori Diesel alle emissioniinquinanti nei centri urbani.
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Il presente articolo è dunque il frutto di una lunga conversazione con il prof. Ferrara, così come un altro articolo di prossima pubblicazione sui veicoli elettrici.
Inquinanti ad effetto locale e globale
Quando si parla di inquinamento nei centri urbani il pensiero corre subito alle emissioni inquinanti derivanti, oltre che dagli impianti termici delle abitazioni, scuole ed uffici, anche a quelle prodotte dal traffico veicolare. Ed è su queste ultime emissioni che occorre fare chiarezza distinguendo tra emissioni nocive alla salute degli esseri umani che possono inalarle in quantitativi rilevanti (quindi che si trovano prossimi alla sorgente di emissione) e le emissioni climalteranti i cui effetti, oltre a ripercuotersi sull’intero pianeta, saranno subiti anche dalle generazioni a venire.
L’inquinamento dell’aria è legato alle immissioni derivanti dai processi di combustione operati dai motori termici, siano essi a ciclo Otto (tipicamente a benzina ma anche a metano o a GPL) che a ciclo Diesel seppur con alcune differenze tra le due tipologie.
I principali inquinanti nocivi presenti nei gas di scarico dei veicoli sono normati da standard che pongono dei limiti alla loro emissione in ambiente. Gli ossidi di azoto si formano dalla combinazione tra l’Ossigeno e l’Azoto presenti nell’aria ogni volta che essa viene portata a temperature al di sopra dei 1600-1800° C. Alle alte temperature l’azoto presente nell’aria si trasforma in tre composti: protossido di azoto, ossido di azoto e biossido di azoto. Ma dopo pochi istanti rimane sostanzialmente solo il biossido di azoto. Occorre tener presente che tutto ciò che brucia tende quindi a formare ossidi di azoto.
Abbiamo poi gli HC o Idrocarburi Incombusti e il Monossido di Carbonio che sono originati da combustione parziale. Sono tossici e cancerogeni, ma il loro quantitativo prodotto è oggi quasi nullo.
Vi sono poi le emissioni di particolato (PM 10): piccoli agglomerati carboniosi che si formano per combustione incompleta all’abbassarsi della temperatura. Sono particelle di dimensione 5-10 µm (da cui PM 10) pericolose perché si depositano sugli alveoli polmonari.
Infine, la combustione di un combustibile fossile libera la CO2 che è un gas climalterante (complice del ben noto “effetto serra”).
Con i cicli di omologazione sono stati introdotti dei limiti alle emissioni inquinanti ai quali i veicoli devono sottostare per poter essere omologati e immessi sul mercato. Tali limiti cercano di evitare, o quantomeno di limitare, le emissioni nocive che sono tossiche per le persone che si trovano in prossimità dell’emettitore (nella fattispecie il motore).
Gli inquinanti si spostano e poi si disperdono nell’ambiente ed il loro contributo da un punto di vista globale è abbastanza limitato. Tipicamente il problema si pone dunque nei centri urbani dove la loro concentrazione può arrivare a soglie di pericolosità per la salute umana. Questo è il motivo per cui si opera in queste aree un monitoraggio continuo e per il quale le amministrazioni intervengono con limitazioni al traffico veicolare quando si superano determinate soglie.
Pertanto possiamo affermare che le emissioni prodotte dai veicoli hanno rilevanza consistente solo a livello locale e coinvolgono la popolazione che in qualche modo si trova ad inalare tali prodotti. Hanno invece un impatto a livello globale quasi trascurabile.
Di tutt’altra natura risulta essere il problema delle emissioni di CO2, infatti l’anidride carbonica, contribuendo all’effetto serra (e alle conseguenze che questo induce su l’innalzamento delle temperature, lo scioglimento dei ghiacciai e la modifica degli habitat naturali di piante ed animali), crea un problema “indiretto”. Gli effetti della sua immissione in atmosfera hanno infatti un impatto di tipo globale (non solo locale) e soprattutto con ripercussioni di lungo termine. Un aspetto che occorre tenere presente è che ad oggi la CO2 non è analizzata come elemento di vincolo ma è incentivata solo la riduzione della sua produzione.
Pertanto il tema della CO2 non è analizzato come un limite al di sopra del quale non è consentita l’immissione di un veicolo sul mercato, ma viene trattato come parametro la cui produzione è da disincentivare. Quindi, emissioni di CO2 ed emissioni d’inquinanti sono due problemi di diverso livello e che non bisogna confondere.
I motori Diesel
Per quanto riguarda i motori a ciclo Diesel questi si caratterizzano per una maggior efficienza rispetto ai motori a benzina e questo permette ai primi di produrre meno CO2 per ogni chilometro percorso durante il loro impiego. Questo deriva dal fatto che la combustione che avviene in un motore Diesel si sviluppa ad un livello di temperatura più elevata garantendo così una più elevata efficienza di conversione energetica.
L’evoluzione dei motori Diesel per uso automobilistico è stata particolarmente consistente soprattutto grazie all’impiego congiunto dei sistemi di sovralimentazione e di iniezione combustibile ad alta pressione (oggi la pressione di iniezione supera i 2000 bar mentre la pressione massima in camera di combustione supera i 200 bar).
Questo ha oltretutto portato i moderni turbo-Diesel ad avere prestazioni equiparabili o addirittura superiori agli equivalenti (in termini di cilindrata) motori benzina aspirati. Tale vantaggio in termini di efficienza si traduce in consumi di combustibile (e CO2 emessa) inferiori anche del 20-30% rispetto ad equivalenti trazioni a benzina. D’altra parte le modalità con cui avviene la combustione nel motore Diesel portano ad un “naturale” maggior livello di emissioni di ossidi di azoto e di particolato rispetto al motore benzina ed obbligano quindi ad equipaggiare i veicoli con più avanzati (e costosi) sistemi di post trattamento dei gas esausti.
Tutto questo però è ben vigilato dalle citate normative EURO (con riferimento all’Europa ovviamente) per cui possiamo considerare un motore Diesel immesso sul mercato equivalentemente “pulito” rispetto ad un motore benzina.
Risulta quindi assolutamente scorretta la recente campagna di “demonizzazione” del motore Diesel che risulta senza dubbio una delle miglioti “macchine di conversione energetica”.
I veicoli ibridi, una soluzione a portata di mano
Uno dei problemi più consistenti dei motori termini (sia benzina che Diesel anche se in misura minore per questi ultimi) è la riduzione di efficienza che si ha quando viene richiesto loro di regolare (ovvero ridurre) la potenza erogata. In altri termini premere poco l’acceleratore rende il motore poco efficiente. D’altra parte questa è la situazione di maggior utilizzo del motore e questo porta ad una evidente contraddizione: per essere efficienti occorre usare tanti cavalli ma questo compromette il consumo per l’elevata richiesta energetica, l’alternativa è allora usare pochi cavalli ma il consumo viene allora compromesso dall’abbassamento di efficienza.
Ecco dunque che ci può venire in aiuto la trazione ibrida. L’idea di base è quella di far lavorare sinergicamente il motore termico e il motore elettrico (la cui efficienza resta alta anche quando deve erogare una potenza ridotta) grazie anche al supporto di un pacco batterie. Ogni volta che la richiesta di potenza dell’utente è bassa, invece di usare il motore termico in maniera inefficiente, si impiega un motore elettrico che preleva energia dalla batteria.
L’energia alla batteria è stata preventivamente fornita dal motore termico che in questa fase avrà lavorato ad alta efficienza. A seconda poi della tipologia di ibridizzazione, i due motori possono lavorare anche assieme per fornire potenza alle ruote (e garantire quindi anche elevate prestazioni). Infine, grazie alla macchina elettrica (che oltre che motore può fare anche da generatore), è possibile recuperare parzialmente l’energia generalmente dissipata durante le fasi di frenatura del veicolo.
Come abbiamo accennato, i motori Diesel hanno un’efficienza di conversione energetica maggiore dei benzina e sono quindi in grado di produrre meno CO2, tuttavia sono allo studio motori a benzina che permettono di avvicinare efficienze dell’ordine del 50% grazie a modalità di combustione innovative permettendo oltretutto di contenere le emissioni inquinanti.
Si tratta di motori benzina che seguono un processo di combustione per certi versi ibrido tra quello dei tradizionali motori benzina e Diesel operando una combustione con accensione per compressione (come sui Diesel) di una miscela aria-combustibile premiscelata (come sui benzina). Si tratta della famiglia denominata HCCI ovvero “Homogenous Charge Compression Ignition”, cioè a combustione per compressione di una carica omogenea.
Questo concetto si declina poi in molte altre sotto-famiglie in base essenzialmente a come si controlla l’avvio della combustione. Questa tipologia di motore si sposerebbe perfettamente alla trazione ibrida garantendo così elevate percorrenze con un litro di combustibile (e conseguentemente basse emissioni di CO2) e basse emissioni inquinanti. Alcune prime applicazioni si cominciano a vedere sul mercato (ne sono esempi il motore Skyactiv-X della Mazda o il nuovo motore Nettuno a precamere della Maserati).
In sintesi possiamo evidenziare come lo sviluppo di motorizzazioni ibride risulta essere una soluzione di corto-medio termine e di immediata applicazione nell’ottica del contenimento delle emissioni di CO2. Incentivare le case a proseguire questo tipo di sviluppo e gli utenti ad acquistare questo tipo di motorizzazione rappresenta certamente una buona scelta politica.
La transizione verso l’elettrico puro ha infatti molte criticità e comporta investimenti molto rilevanti su molti aspetti. Perché sia efficace in termini di contenimento delle emissioni di CO2 bisogna per prima cosa proseguire e potenziare l’impiego di energie rinnovabili per l’approvvigionamento energetico e lavorare su tutta la filiera elettrica dalla distribuzione, all’accumulo, alla gestione dei flussi oltre ovviamente agli aspetti più impattanti sull’utente finale come l’autonomia dei veicoli, il loro costo e la disponibilità delle colonnine per la ricarica.
Le problematiche di abbattimento delle emissioni dei motori Diesel
Come abbiamo accennato i motori Diesel di ultima generazione oltre ad abbattere maggiormente le emissioni di CO2 rispetto ai benzina non sono i soli responsabili della presenza nei centri urbani delle emissioni di PM10 e poveri sottili, infatti alla produzione della maggior parte di questi inquinanti contribuisce tutto il parco auto oltre che con le emissioni anche con le polveri derivanti dai freni, dall’abrasione di asfalto e pneumatici. Queste polveri dei freni e polverino derivante dall’attrito dei pneumatici con l’asfalto sono comunque prodotte anche dai veicoli elettrici per cui anche per questo aspetto (e non solo) non è proprio corretto affermare che questi ultimi sono ad emissioni zero.
Con il succedersi negli anni dei vari cicli di omologazione per il contenimento delle emissioni degli ossidi di azoto, le case costruttrici hanno dovuto tutte le volte “rincorrere” per i motori Diesel i valori che la normativa imponeva. Questo perché i motori Diesel producono in assoluto quantità di ossidi di azoto maggiori rispetto ai benzina. Quindi i benzina sono sempre riusciti ad adeguarsi con più facilità mentre le case costruttrici sono riuscite sempre a far rispettare i limiti anche ai Diesel, ma con più difficoltà, obbligandole tutte le volte a rivedere ed adeguare la tecnologia dei sistemi di abbattimento.
Il ciclo di omologazione europeo NEDC (New European Driving Cycle) è stato il primo ciclo di guida (simulato in laboratorio) europeo, formulato negli anni ’60 ed entrato in vigore nel 1970, nel 1992 era stata aggiunta una fase extraurbana e dal 1997 era stata introdotto anche il rilievo dei consumi e delle emissioni di CO2. La procedura aveva di fatto evidenziato i suoi limiti facendo registrare grandi scarti tra i valori rilevati in sede di omologazione e quelli constatati nell’uso normale delle vetture, denunciando la procedura come vetusta, poco realistica e soprattutto, negli ultimi anni, aggirabile dalle aziende.
A seguito del dieselgate scoppiato nel 2015, da settembre 2017 i modelli di nuova omologazione sono sottoposti alla nuova procedura WLTP (Worldwide harmonized Light vehicles Test Procedure).
Dal settembre 2019 al ciclo di omologazione WLTP eseguito in laboratorio, è stato affiancato il ciclo RDE (Real Driving Emission), condotto in strada, la combinazione dei due protocolli corrispondenti ai valori di emissione Euro 6 d temp, permettono di affermare che le emissioni di ossidi di azoto tra le due tipologie di motori termici si equivalgono ma non per la CO2 dove i benzina continuano ad avere valori emissivi di maggior entità rispetto al Diesel.
La scelta di penalizzare le auto a gasolio sta portando ad un effetto paradossale: l’aumento delle vendite dei motori a benzina ha portato ad un incremento della CO2 emessa in media dalle auto di nuova immatricolazione.
A livello europeo, nel 2018 l’aumento delle motorizzazioni a benzina è stato dell’ 1,6% (e nel 2019 la tendenza è stata confermata). Questo perché il Diesel, più efficiente, emette meno CO2.
Secondo i dati ACI sul parco circolante 2019 ripartito per alimentazione, l’incremento delle ibride a gasolio è stato del +290%, delle elettriche +87% e del +32% per le ibride a benzina. Valori che descrivono bene una tendenza anche se si tratta ancora di una nicchia di mercato, con quote che non raggiungono l’1% del totale del parco auto.
Se dunque da un lato si può immaginare che, nel breve termine, il futuro della mobilità privata potrà essere rappresentata dalle motorizzazioni ibride che combinano elettrico con termico benzina o Diesel dall’altra parte, se veramente si intende attuare una drastica riduzione di CO2, PM10 ed ossidi di azoto, sarà necessario rendere sempre più disponibili sistemi intermodali di mobilità che si basino su mezzi da usare in condivisione o a noleggio, elettrici, ibridi od assistiti, lasciando che il mezzo privato vada sempre più a diminuire fino a rimanere del tutto residuale.
Nel tentativo di diminuire l’impronta ambientale dei cicli di vita dei mezzi occorrerà infatti che ogni mezzo oltre ad offrire il suo servizio per un tempo maggiore possibile sia anche condiviso nell’uso il più possibile permettendo di distribuire il suo impatto ambientale sul maggior numero di km percorsi.
Va inoltre dedicata una attenzione particolare al tema della diffusione dei veicoli elettrici, su cui torneremo a breve con uno specifico articolo, sempre sulla base della conversazione avuta con il prof. Ferrara. Si tratta in ultima analisi di avere una visione politica di viabilità integrata contemperando i diversi sistemi di trazione disponibili.
Testo di Sergio Lavacchini
- Il contributo all’inquinamento dei motori a ciclo diesel
- I gas di scarico dei motori diesel nella lista delle sostanze cancerogene certe
- L’impatto dei motori diesel sulla qualità dell’aria
- L’impatto sulla salute delle polveri prodotte dai motori diesel in un rapporto dell’Afsse
- IPCC – AR5 Climate Change 2014: Mitigation of Climate Change (capitolo 8-trasporti)