Le cronache ci dicono che, in questo periodo di emergenza sanitaria, la domanda di abiti è crollata, la chiusura totale (lockdown) rappresenta un momento di forte crisi economica, le persone perdono il loro posto di lavoro e si registrano perdite di profitto per produttori e venditori. Forse, questo momento potrebbe però rappresentare, nel mezzo a tante difficoltà, una “pausa di riflessione”, un modo per ripensare i nostri modelli di consumo e di produzione.
Gli abiti, da sempre, esercitano il loro fascino, ma dobbiamo prendere coscienza che questi non devono rappresentare una minaccia per le persone e per il Pianeta; per questo dobbiamo scegliere una moda “sana”, sostenibile sia socialmente che ambientalmente.
Siamo ancora così tentati dal turn over (cambio) frenetico degli outfit e dei trends (tendenze) “mordi e fuggi” ? oppure pensiamo che sia giusto ripartire con una maggiore consapevolezza della necessità di tutelare l’ambiente in cui viviamo anche attraverso consumi più sostenibili e produzioni meno impattanti ?
La crisi climatica e i problemi ambientali erano già al centro dell’attenzione di buona parte del comparto industriale tessile, che, come sappiamo, contribuisce non poco ad impattare sul nostro ambiente. Per fare fronte a questo situazione, le imprese cercano di autodisciplinarsi, nel 2019, durante il G7 di Biarritz, in Francia, è stato lanciato il Fashion Pact, mentre, nel 2018, molti marchi e venditori avevano firmato la Carta per la moda sostenibile e a favore del clima. A livello nazionale, è del 2012 il “Manifesto della sostenibilità della moda italiana”.
Tutto questo, seppur importante, non basta, infatti, alle imprese, che fanno capo al comparto del tessile-moda, è sempre più richiesta trasparenza sui loro impatti e soprattutto una chiara comunicazione degli obiettivi raggiunti mettendo in campo politiche più sostenibili sia socialmente che ambientalmente.
A questo proposito, Fashion Revolution, un’associazione molto impegnata nel valutare il comportamento delle aziende ma anche nel diffondere il messaggio di una moda più sostenibile, nel suo recente rapporto, afferma che il 78% delle imprese del settore moda fornisce dati sulla politica energetica adottata e sulle emissioni in atmosfera prodotte, ma, purtroppo, ancora solo il 16% dichiara di attuare una strategia in linea con gli accordi di Parigi, che puntano a ridurre il riscaldamento globale sotto i 2 gradi rispetto ai livelli esistenti prima dell’industrializzazione e solo il 16% rende noti i dati relativi al proprio impatto sulla qualità dell’aria, tenendo conto anche dell’intera filiera, fornitori compresi.
Nella quinta edizione annuale del Fashion Transparency index 2020 sono classificati 250 grandi brands (marche) e venditori di moda, vengono valutate le loro politiche ambientali e sociali, evidenziando le buone pratiche messe in atto e gli sforzi per ridurre anche gli impatti ambientali. Quest’anno sono stati oggetto di analisi anche 50 nuovi brands e venditori, con l’ingresso di australiani, indiani, norvegesi, polacchi, sud africani, svizzeri e marchi dalla Nuova Zelanda.
Il Fashion Trasparency Index si compone di 220 indicatori che coprono un’ampia gamma di temi sociali e ambientali, come il benessere degli animali, la biodiversità, le sostanze chimiche, il clima, equità ed uguaglianza tra i generi nel lavoro, rifiuti, riciclo, condizioni di lavoro e molto altro. Quello che emerge, purtroppo, è che ci sono molte imprese impegnate seriamente mentre altre fanno ancora molta comunicazione ma pochi fatti (greenwashing).
Purtroppo dal report di Fashion Revolution emergono poche informazioni reali sui risultati e sui progressi ottenuti applicando le politiche che le imprese hanno reso pubbliche, questo sta a significare, come sottolinea Fashion Revolution, che molti grandi marchi e molti venditori pubblicizzano le loro politiche ambientali e sociali più di quanto le applichino in concreto.
La buona notizia è che, in ogni caso, questo comparto industriale sta convertendosi alla trasparenza, quindi, ci sono buone aspettative per il futuro di superare le ombre oscure nelle informazioni sui salari, sulle liste dei fornitori, sui risultati degli audit, sui dati degli impatti sul clima e l’ambiente ed altro ancora.
Il Fashion Trasparency Index è uno degli strumenti per cercare di comprendere come si stanno muovendo i grandi brands (marche) e venditori di questo comparto rispetto al tema della sostenibiltà, a questo si affianca, ad esempio, il protocollo DETOX di Greenpeace oppure il percorso LIFE adottato anche da importanti marchi del lusso. Tutti puntano a migliorare le prestazioni ambientali dei prodotti e dei siti di produzione, con particolare attenzione all’inquinamento atmosferico dovuto alle emissioni di CO2.
Come consumatori, invece, cosa siamo disposti a fare per promuovere un modo di vestire “più sano” ? Forse, in questo particolare periodo che stiamo vivendo, abbiamo compreso che quello di cui abbiamo veramente bisogno è qualità e durabilità ma anche originalità.
Quest’ emergenza sanitaria, con tutte le sue difficoltà, ci ha dato la possibilità di capire che non abbiamo bisogno di abbigliamento a basso costo ed in grande quantità, che significa solamente
- una bassa qualità del prodotto che acquistiamo
- un alto livello di sfruttamento di chi lo produce in molti paesi dell’Asia ma anche in Europa
- alti impatti ambientali, non più accettabili, soprattutto in un momento in cui il mondo si sta chiedendo se esiste una relazione tra inquinamento ambientale, perdita di biodiversità, cambiamento climatico e insorgenza di pandemie.
Come consumatori non possiamo più ignorare i danni causati dalla fast fashion (moda usa e getta), che, secondo uno studio del London Sustainability exchange, già prima della Pandemia, produceva ogni anno, nel mondo, 80-100 miliardi di capi di abbigliamento; abiti per lo più indossati poche volte e velocemente trasformati in rifiuti, spesso inceneriti o gettati in discarica, solo in pochi casi riciclati.
Non possiamo più accettare tutto questo ! Dobbiamo adottare nuove abitudini di consumo, come, ad esempio, optare per il ri-uso. Sembra, infatti, che “riparare sia il nuovo lusso”, già prima dell’attuale Pandemia, il World Luxury Tracking study on second-hand aveva evidenziato un incremento delle persone disposte ad acquistare beni di seconda mano, in particolare abiti, l’aumento si attestava ad un più 11% negli Stati Uniti e un più 7% in Europa.
Se la fast fashion (moda usa e getta) ha reso tutto uguale, copiando i prodotti realizzati da altri, in violazione alla creatività e all’inventiva e alla proprietà intellettuale, il riuso risponde alla necessità di inquinare meno ed evitare di “inzeppare” i nostri armadi di capi di abbigliamento tutti uguali e di scarsa qualità.
Da una recente ricerca Ipsos emerge che 4 su dieci degli intervistati hanno già comprato abbigliamento, scarpe o accessori di seconda mano, purtroppo, il 45% dei nostri connazionali, intervistati hanno risposto di non avere mai fatto questo tipo di acquisti. Tra i meno propensi agli acquisti di prodotti di seconda mano troviamo i Cinesi, gli Olandesi, i Russi, e poi noi Italiani e i Francesi, ma la lista è lunga.
Nel panorama europeo, gli Olandesi sembrano quelli meno propensi al riuso, mentre i più “curiosi” si mostrano gli Spagnoli, che si dichiarano pronti ad acquistare prodotti usati. Gli Italiani, che si dicono “aperti” al mercato dell’usato, sono il 19% mentre quelli contrari il 26%.
Se proprio non ci piace riusare, possiamo, comunque, scegliere prodotti e aziende che si impegnano nella sostenibilità ambientale oltre che nel rispetto dei lavoratori. Utilizzando l’App di Good on you – Ethical Fashion o visitando il loro sito , è possibile verificare cosa stanno facendo le oltre 2000 imprese, presenti nel loro data-base, a favore della sostenibilità ambientale e sociale.
Fashion Revolution, invece, ha pubblicato di recente la prima mappa della moda sostenibile in Italia, con l’obiettivo proprio di aiutare i consumatori nelle loro scelte.
Quello che possiamo fare subito, senza troppa fatica, è firmare il manifesto per la rivoluzione nella moda.