Agenda 2030: i passi delle sfide globali

«Il nostro scopo è chiaro. La nostra missione è possibile. La nostra meta è sotto i nostri occhi: la fine della povertà estrema entro il 2030 e una vita di pace e dignità per tutti». Così Ban Ki Moon, all’epoca segretario generale delle Nazioni Unite, nel settembre 2015 presentava l’Agenda 2030 per uno sviluppo sostenibile, appena approvata da oltre 150 Stati membri (vedi versione integrale).

Cuore dell’Agenda sono gli “obiettivi per lo sviluppo sostenibile” (Sustainable Development Goals, o SDG): si tratta di 17 obiettivi che i paesi dovrebbero fare propri, mettendo in atto politiche per la loro realizzazione entro il 2030 (vedi presentazione).

Ne parla in un articolo di approfondimento Cristiana Pulcinelli sulla rivista Micron.

L’idea non è nuova: già nel 2001 l’ONU aveva lanciato gli 8 Millennium Development Goals (sradicare la povertà estrema e la fame nel mondo; rendere universale l’istruzione primaria; promuovere la parità dei sessi e l’autonomia delle donne; ridurre la mortalità infantile; ridurre la mortalità materna; combattere l’HIV/AIDS, la malaria e altre malattie; garantire la sostenibilità ambientale; sviluppare un partenariato mondiale per lo sviluppo) che si volevano conseguire entro il 2015 e che sono stati raggiunti solo parzialmente.

Le Nazioni Unite hanno dato il via al più grande programma di consultazione della loro storia per arrivare a definire quei goal. Tutto è iniziato nel 2012 quando, dopo il Rio+20 Summit, viene messo in piedi un gruppo di lavoro aperto con i rappresentanti di 70 paesi per individuare i punti fondamentali. Il gruppo ha discusso per oltre un anno; tra i partecipanti c’erano nomi importanti come Robert Costanza, l’economista americano che per primo ha fatto una stima economica della natura, e Paul Crutzen, premio Nobel per la chimica per le sue ricerche sul buco dell’ozono. Parallelamente, sono state condotte delle global conversations, ovvero consultazioni con la popolazione su temi specifici e sondaggi porta a porta i cui risultati sono stati discussi dalla commissione.

Il risultato finale sono 17 punti, che elenchiamo:

  1. porre fine ad ogni forma di povertà nel mondo;
  2. porre fine alla fame, raggiungere la sicurezza alimentare, migliorare la nutrizione e promuovere un’agricoltura sostenibile;
  3. assicurare la salute e il benessere per tutti e per tutte le età.
  4. fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti;
  5. raggiungere l’uguaglianza di genere ed emancipare tutte le donne e le ragazze;
  6. garantire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e delle strutture igienico-sanitarie;
  7. assicurare a tutti l’accesso a sistemi di energia economici, affidabili, sostenibili e moderni;
  8. incentivare una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva ed un lavoro dignitoso per tutti;
  9. costruire un’infrastruttura resiliente e promuovere l’innovazione ed una industrializzazione equa, responsabile e sostenibile;
  10. ridurre l’ineguaglianza all’interno di e fra le nazioni;
  11. rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili;
  12. garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo;
  13. promuovere azioni, a tutti i livelli, per combattere il cambiamento climatico;
  14. conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine per uno sviluppo sostenibile;
  15. proteggere, ripristinare e favorire un uso sostenibile dell’ecosistema terrestre;
  16. promuovere società pacifiche e inclusive per uno sviluppo sostenibile;
  17. rafforzare i mezzi di attuazione e rinnovare il partenariato mondiale per lo sviluppo sostenibile.

Il gruppo di lavoro ha poi indicato numerosi sotto-obiettivi, per così dire, che specificano meglio l’intento e le modalità di realizzazione dell’obiettivo stesso, i cosiddetti “target”. Ad esempio, nel primo goal (sconfiggere la povertà) troviamo target come: ridurre almeno della metà il numero di persone che vivono in condizioni di povertà entro il 2030 ed eradicare la povertà estrema (ovvero quella di chi vive con meno di 1,25 dollari al giorno). In tutto contiamo 169 target.

Un aspetto interessante è che il passaggio dagli 8 goal del 2001 ai 17 attuali è avvenuto mettendo al centro l’ambiente. Nel nome stesso dei nuovi obiettivi compare lo “sviluppo sostenibile” come indice dell’accettazione del fatto che la sostenibilità è un fattore chiave e ormai indispensabile per il nostro futuro. Inoltre, a ben guardare, gli obiettivi hanno tutti a che fare con l’ambiente.

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Alcuni di essi hanno una relazione diretta con la qualità dell’ambiente fisico e sono il risultato dell’espansione dell’obiettivo del millennio sulla sostenibilità ambientale in 5 diverse declinazioni: acqua pulita, vita in mare e sulla terra, clima, biodiversità. Altri sono indirettamente correlati con l’ambiente attraverso i disastri naturali, la fame, l’agricoltura, il cibo, la salute, l’energia, la crescita economica, l’industria, le città. L’obiettivo 8, ad esempio, che parla di crescita economica sostenibile, ha tra i suoi target il disaccoppiamento (decoupling, nel gergo internazionale) della crescita economica dalle pressioni sull’ambiente e dal degrado ambientale.

L’altro elemento interessante che si evidenzia, quindi, è lo stretto legame che unisce gli obiettivi tra loro. La lotta al cambiamento climatico, per fare un esempio, inciderà anche sulla lotta alla povertà e sulla realizzazione della pace. È infatti ormai dimostrato che l’impatto della modificazione del clima può portare alla perdita di mezzi di sussistenza, a un aumento di morbilità e mortalità, a un rallentamento economico e a un maggiore potenziale di conflitti violenti, migrazione di massa e diminuzione della resilienza sociale. A questo proposito, uno studio appena pubblicato da Nature mette in evidenza come le scelte politiche sull’energia influiranno sulle situazioni geopolitiche del futuro, favorendo o spegnendo conflitti e tensioni.

Il problema fondamentale è che questi obiettivi non hanno un regime vincolistico, ma solo reputazionale. Cosa vuol dire questo? Mentre alcuni accordi internazionali sono vincolanti (pensiamo a quello sull’uso dei cloroflorocarburi (CFC) per la riduzione del buco nell’ozono), altri, come ad esempio l’accordo di Parigi sul clima, sono su base volontaristica e non prevedono alcuna misura di penalità per i paesi nel caso in cui questi non mantengano gli impegni assunti. La cosa peggiore è una cattiva reputazione internazionale, ma poco altro.

Ma questo non è l’unico motivo per cui appare altamente improbabile che tutti gli obiettivi vengano raggiunti: «Per cominciare, gli stati membri hanno evitato parametri quantificabili reali per il 2030 per molti degli obiettivi, il che significa che non saremo mai in grado di valutare definitivamente se sono stati raggiunti o meno», spiega Lorenzo Ciccarese dell’ISPRA che da vent’anni partecipa come esperto del governo ai processi negoziali ONU sui cambiamenti climatici, sulla conservazione della biodiversità e sullo sviluppo sostenibile. D’altra parte, il fatto che non tutti gli SDG saranno soddisfatti non li rende inutili. «La loro forza è che c’è una spinta per molti attori diversi a lavorare collettivamente in un mondo sempre più polarizzato in cui il multilateralismo è scricchiolante. Nessun altro quadro multilaterale può affermare di avere una così ampia proprietà globale, grazie in parte alla vasta fase di consultazione. Se diventano un punto di riferimento comune, possono essere qualcosa che unisce. E se vogliamo fare progressi sulle molte questioni che coprono, questo sarà un punto di partenza», conclude Ciccarese.

E l’Italia? Nel 2017 è stata presentata al Consiglio dei ministri e poi approvata dal CIPE la “Strategia italiana per lo sviluppo sostenibile” che vorrebbe essere il primo passo per declinare a livello nazionale i principi dell’Agenda 2030.

A partire dal dicembre 2016 l’Istat ha reso disponibili, con cadenza semestrale, molti indicatori per l’Italia sulla piattaforma informativa dedicata agli SDGs del proprio sito. La piattaforma è attualmente popolata da 303 misure statistiche nazionali (di cui 273 diverse) che rispondono, spesso integrandola, alla domanda informativa che emerge da buona parte degli indicatori proposti dall’ONU. La stessa ISTAT ha prodotto uno specifico report sul posizionamento dell’Italia in questo percorso.

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