Sulla rivista Micron è stata pubblicato un interessante articolo di Simona Re, nel quale se si mette in evidenza come il primo dovere dei giornalisti è quello di difendere il diritto all’informazione, forse rispetto ai temi ambientali e scientifici qualcosa non sta funzionando a dovere.
“Some people have chosen not to listen to us. And that is fine. We are after all just children. You don’t have to listen to us, but you do have to listen to the united science, the scientists, and that is all we ask; just unite behind the science”.
Discorso di Greta Thunberg all’Assemblea Nazionale francese, 23 luglio 2019
Ci siamo abituati alla devastazione della foresta amazzonica e agli sbarchi dei migranti, all’estinzione dell’orso polare e alle balene spiaggiate uccise dalla plastica. Nelle ultime settimane abbiamo assistito ai devastanti incendi in Alaska e Siberia, lo scioglimento del permafrost e dei ghiacciai alpini. Lo scenario sembra quello di un film di fantascienza. Eppure, gli appelli e gli allarmi degli scienziati fanno la loro comparsa di tanto in tanto sui media nazionali, senza destare troppo scalpore. Tanto tra i politici e i cittadini, quanto tra i giornalisti stessi.
La generale indolenza dell’opinione pubblica rispetto alle catastrofi ambientali, del resto, non è che la punta dell’iceberg. Quello dell’ambiente infatti è solo uno tra i molti scottanti temi scientifici pressoché ignorati dal grande pubblico e dai media. Se il primo dovere dei giornalisti è quello di difendere il diritto all’informazione, forse, nel nostro giornalismo, qualcosa non sta funzionando a dovere.
L’autrice dell’articolo ne ha parlato con Michele Bellone, giornalista scientifico e curatore editoriale di Codice Edizioni, e con Marco Cattaneo, fisico e giornalista, direttore delle riviste Le Scienze e National Geographic.
Il tema del riscaldamento globale ben esemplifica il generale disinteresse dell’opinione pubblica (italiana e non solo) nei confronti delle questioni scientifiche. Come affermano gli esperti, il cambiamento climatico e gli imprevedibili sconvolgimenti ambientali, economici e sociali a cui stiamo andando incontro produrranno un enorme impatto sulla vita di ognuno di noi. Generazioni presenti, e generazioni future.
Tuttavia, fatto salvo per scienziati e attivisti, la nostra società sembra ancora lontana dal raggiungere la necessaria consapevolezza di quanto sta succedendo. I motivi che ci portano ad accantonare un problema che non ci piace sono tanti. «Nella società del benessere, il cambiamento climatico è percepito da molti come una minaccia troppo grande, troppo lontana, e che richiede cambiamenti troppo drastici rispetto ai nostri standard di vita. A questi bias cognitivi si somma poi l’influenza dell’approccio politico, delle idee filosofiche e religiose, e quindi di tutti quei fattori che contribuiscono a consolidare le nostre filter bubble» spiega Michele Bellone. «Penso che la grande sfida della comunicazione scientifica sia bucare queste bolle, e per fare questo è necessario che chi si occupa di comunicazione impari a rivolgersi anche a chi la pensa diversamente. Se si vuole diffondere un messaggio, non basta predicare al coro, cioè rivolgersi a chi è già convinto».
La gravità della questione climatica potrebbe essere uno stimolo sufficiente per superare, finalmente, il vecchio e noto cliché degli “scienziati poco avvezzi a farsi capire”. Per riuscire nell’intento, in un mondo in cui i canali e le modalità di comunicazione cambiano tanto velocemente, quello che è richiesto alla comunicazione della scienza è la capacità di stare al passo con i tempi. Secondo Bellone «La divulgazione scientifica dovrebbe adattarsi ai modi in cui le persone si informano, e quindi dovrebbe passare sempre più anche attraverso piattaforme come Instagram e Youtube, perché è lì che comunicano le nuove generazioni, ed è soprattutto a queste che dovremmo rivolgerci. Abbiamo bisogno di nuovi stili e di nuove modalità di narrazione». E aggiunge: «Per garantire la comunicazione efficace di un tema scientifico importante e che ha delle caratteristiche di emergenza, quello che ci vuole è un lavoro di squadra di scienziati e comunicatori, che coinvolga sia i grandi nomi sia gli esordienti. Serve riunirsi e ragionare insieme. Serve chi è bravo a fare ricerca e chi a raccontarla, chi sa sviluppare strategie di comunicazione, e chi è bravo a creare eventi a cui quelli che sanno comunicare possano partecipare». Queste potrebbero essere le strategie chiave per assicurare una più degna necessaria attenzione dell’opinione pubblica al mondo della scienza: un ritrovato coraggio nello sperimentare nuovi modi di comunicare, e un fervido lavoro di squadra di scienziati e comunicatori. Tuttavia, per quanto la comunità scientifica possa reinventare il suo approccio con il pubblico, con questo passo arriveremmo solo a metà strada. Per garantire una corretta informazione in tema di scienza serve un’efficace alleanza tra scienza e giornalismo e, quindi, uno sforzo da entrambe le parti.
Nulla può la chiarezza della comunicazione se a mancare, in un dialogo, sono gli interlocutori. A questo proposito, le principesse del giornalismo italiano, da lungo tempo sopite, necessiterebbero un deciso risveglio. Per molti italiani, le notizie su tv e giornali che parlano di ambiente e di scienza sono da considerarsi in genere come delle curiosità. Scoperte e aneddoti curiosi, e non indispensabili, che in ordine di lettura possono attendere il loro turno dopo la cronaca, la politica, lo sport e l’oroscopo. Magari aspettando un caffè.
È in questo ecosistema mediatico tanto sicuro e consolidato che ha fatto capolino, lo scorso ottobre, la pubblicazione del famoso report dell’IPCC “Global Warming of 1.5 °C”. Le reazioni della stampa e dei telegiornali all’annuncio della crisi climatica sono state a dir poco stravaganti. Dopo una fase di generale indifferenza, è stata la volta del chiacchiericcio, e quindi del negazionismo e delle accuse a Greta Thunberg. Ora, a fronte di ondate di calore, incendi anomali e scioglimento dei ghiacciai, le conseguenze macroscopiche del cambiamento climatico sono raccontate al pari di eventi straordinari quanto isolati e occasionali, e quello che succede lontano dai nostri occhi è mormorato con una sorta di insano e irrazionale distacco.
A essere onesti, ciò che spesso manca è il chiaro riconoscimento della causalità degli eventi legati al cambiamento climatico, ovvero quella chiave di lettura indispensabile per suscitare nel pubblico una reale presa di coscienza del problema, nel rispetto del più alto degli scopi del giornalismo: difendere il diritto all’informazione. A tutti gli effetti.
Così, mentre The Guardian e New York Times parlano di crisi climatica e di possibili soluzioni, mentre gli attivisti nel Regno Unito scendono in piazza e il loro parlamento dichiara l’emergenza climatica, nel belpaese siamo presi a parlare di negazionismo climatico, flat tax e di messa in discussione dell’allunaggio. Quanto a sensibilizzazione degli italiani, basti pensare che le firme per salvare l’orso M49 superano di sei volte quelle raccolte dalla più importante petizione degli scienziati italiani sul cambiamento climatico.
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