Il fattore P

Ma davvero il numero di abitanti del pianeta non ha alcun effetto sul clima? il rapporto tra popolazione e ambiente è questione antica. L’impatto umano sull’ambiente (e, quindi, anche sul clima), I, è il prodotto di tre fattori: P, la popolazione appunto; A, l’affluence, ovvero il consumo pro-capite di materia e di energia; T, un fattore che potremmo tradurre con impatto ambientale per unità di consumo. L’equazione ci dice, in modo chiaro, che a parità di consumi e di qualità di consumi, l’impatto umano sull’ambiente cresce linearmente con la crescita della popolazione.

Ma davvero il numero di abitanti del pianeta non ha alcun effetto sul clima? La domanda retorica e, dunque, polemica l’hanno (ri)proposta John Bongaarts, del Population Council di New York, e Brian O’Neill, del National Center of Atmospheric Research di Boulder, in Colorado sulla rivista Science.
Diciamo riproposta e non proposta perché il rapporto tra popolazione e ambiente è questione antica. Anche da un punto di vista formale. Uno dei libri di riferimento è quello della coppia Anne e Paul Ehrlich, che già nel 1968 denunciava The population bomb: la crescita incontrollata della popolazione umana che avrebbe avuto (che stava già avendo) un forte impatto sul pianeta Terra. Ricordiamo che nel 1960 la popolazione umana era di 3 miliardi di persone, ma già si prevedeva che sarebbe raddoppiata entro il 2000. La preoccupazione dei coniugi Ehrlich ritornò alla vigilia del vertice della Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo di Rio de Janeiro del 1992, con la pubblicazione, due anni prima, di un nuovo libro, The population explosion.

Ma la formalizzazione del rapporto tra popolazione e ambiente e, quindi, anche tra popolazione e clima venne proposta all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso da Paul Ehrlich insieme a John Holdren (futuro consigliere di Barack H. Obama) in un’equazione pubblicata prima su The Bulletin of the Atomic Scientists e poi sulla stessa rivista Science. L’impatto umano sull’ambiente (e, quindi, anche sul clima), I, è il prodotto di tre fattori: P, la popolazione appunto; A, l’affluence, ovvero il consumo pro-capite di materia e di energia; T, un fattore che potremmo tradurre con impatto ambientale per unità di consumo. L’equazione ci dice, in modo chiaro, che a parità di consumi e di qualità di consumi, l’impatto umano sull’ambiente cresce linearmente con la crescita della popolazione. Partendo dall’assunto per cui – a parità dei fattori A e T – se i consumi individuali di materia ed energia fossile fossero congelati o, ancor meglio, diminuiti, il fattore A potrebbe diminuire più velocemente di quanto non aumenti la popolazione umana. È questa l’ipotesi base di una serie di teorie economiche sulla sostenibilità: dallo stato stazionario di Hermann Daly alla decrescita (più o meno felice) di Serge Latouche.

Sulla diminuzione di T, da perseguire attraverso il consumo di beni sempre più intangibili e di energie sempre più rinnovabili e carbon free, puntano invece i teorici di uno sviluppo sostenibile che utilizza di più la scienza e la tecnologia verdi. Ma, poiché non è pensabile che i consumi di materia e di energia si azzerino né che le nove tecnologie abbiano un impatto zero sull’ambiente, in ogni caso il fattore P, il fattore popolazione, resta importante. Tanto più se, come prevedono i nuovi scenari demografici da qui alla fine del secolo, il pianeta vedrà aumentare la sua popolazione di 4 miliardi di persone e arriveremo a contare 11,5 miliardi di abitanti umani della Terra.

E allora, si chiedono John Bongaarts e Brian O’Neill, perché nei documenti tecnici e politici che si occupano di clima il fattore popolazione viene costantemente sottovalutato? L’indice è puntato, anche, verso l’IPCC, l’Intergovernmental Panel on Climate Change delle Nazioni Unite. I motivi che adducono Bongaarts e O’Neill sono quattro. Quattro percezioni infondate. Che fanno capolino anche nella testa di studiosi e politici. La prima è che quello della crescita della popolazione non sia più un problema. O perché risolto o perché ininfluente. Che non sia stato risolto ce lo dicono le previsioni degli esperti cui abbiamo già accennato. Che non sia ininfluente ce lo dice l’equazione di Ehrlich e Holdren.
La seconda percezione infondata è che le politiche di controllo della crescita demografica non siano efficaci. Al contrario, molte delle strategie utilizzate hanno dimostrato una notevole efficacia e se la popolazione umana non è cresciuta secondo le previsioni preoccupate dei coniugi Ehrlich, bensì un po’ di meno, lo si deve proprio alle diverse politiche di controllo delle nascite. La terza percezione infondata è che la crescita demografica non abbia un impatto significativo sul clima. Sbagliato, dicono John Bongaarts e Brian O’Neill, studi accurati dimostrano che, rallentando lo sviluppo demografico, si potrebbero ridurre le emissioni attese di gas serra del 40%. Non è certo una percentuale da poco. Infine, molti sostengono che le politiche di controllo sono troppo controverse perché si possa programmare il loro successo.

Nulla di tutto questo, dicono i due ricercatori americani. E portano il caso di due Paesi, il Pakistan e il Bangladesh, che negli anni ’80 del secolo scorso avevano una curva di crescita simile. Ebbene, la curva di crescita della popolazione pakistana continua imperterrita in sostanziale assenza di politiche di pianificazione, mentre la curva di crescita della popolazione del Bangladesh, Paese che ha implementato una politica di controllo delle nascite, ha subito un drastico rallentamento.
Queste percezioni infondate vanno tutte rimosse, se vogliamo mettere in campo tutti gli strumenti efficaci possibili per contrastare i cambiamenti del clima, sostengono John Bongaarts e Brian O’Neill.

Tuttavia anche loro, probabilmente, sottostimano un quinto elemento che in qualche modo impedisce che il fattore popolazione compaia nei documenti ufficiali di contrasto ai cambiamenti del clima: la demografia è un tema sensibile. Sia dal punto di vista politico sia da un punto di vista religioso. Le differenze ideologiche tra i vari Paesi sono le più diverse. Così, per non scontentare nessuno, non se ne parla. Perdendo opportunità forse decisive.

Articolo di Pietro Greco sulla rivista Micron

 

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