Sulla rivista Micron si torna sul tema delle microplastiche nel mare. Tempo addietro, infatti, la rivista ha parlato di uno studio condotto da un gruppo di ricercatori dell’Istituto per i Polimeri Compositi e Biomateriali del CNR di Pozzuoli (NA) secondo cui la principale fonte di inquinamento da microplastiche primarie dei mari sarebbero le microfibre sintetiche di cui sono fatti molti dei capi d’abbigliamento comunemente usati, che vengono rilasciate durante i lavaggi domestici.
Un tema trattato in precedenza anche da Arpatnews, che si è riferita ad alcuni studi inglesi che hanno evidenziato come gli indumenti sempre di più composti da fibre sintetiche come poliestere, nylon, acrilico, in fase di lavaggio rilasciano microplastiche che finiscono nei corsi d’acqua e poi in mare. Ad esempio, da uno degli studi citati è emerso che un grammo di tessuto rilascia in un solo lavaggio più di 3.000 microfibre per grammo. Una felpa in pile dal peso di 680 grammi può perdere circa 1 milione di fibre a lavaggio, un paio di calze di nylon quasi 136.000.
Sebbene la presenza di microplastiche nei mari di tutto il mondo sia già ampiamente documentata, le conseguenze sugli ecosistemi marini e sulla catena alimentare, sono ancora in gran parte sconosciute e gli studi finora condotti insufficienti per trarre conclusioni certe.
Proprio per tentare di colmare questo vuoto sono al lavoro gli scienziati della Stazione Zoologica ‘Anton Dohrn’ di Napoli, soggetto capofila di un team internazionale coordinato dal biologo marino francese Christophe Brunet, impegnato in una ricerca sugli effetti delle microplastiche sull’habitat marino del Golfo di Napoli.
Di questo lavoro si parla su Micron. Il progetto è durato tre anni e i risultati preliminari sono stati recentemente presentati da Brunet in un seminario per ricercatori presso la Stazione ‘Dohrn’; i risultati definitivi saranno resi noti solo dopo l’estate.
Per le modalità con cui è stato condotto, che hanno permesso di ottenere risultati estremamente affidabili che non si sarebbero potuti ricavare in nessun altro modo, lo studio condotto a Napoli rappresenta un unicum rispetto a ricerche analoghe.
Sono stati usati due gruppi di 3 reti cilindriche, ciascuna lunga circa 15 metri, collocate nelle acque del Golfo di Napoli, di fronte alla costa. In pratica, gli scienziati hanno potuto studiare quello che accadeva nelle 6 colonne d’acqua di 15 metri di profondità, contenenti la stessa fauna e flora del resto del Golfo.
I primi risultati indicano con sufficiente certezza la presenza dieffetti diretti e indiretti delle microplastiche su tutto l’ecosistema marino, effetti che si manifestano sia a livello microscopico, sia macroscopico. Ad esempio, le microalghe tendono ad attaccarsi e a crescere sulle microplastiche, modificandone dimensione, densità e distribuzione spaziale nell’acqua. Così facendo, esse diventano più appetibili per i crostacei e i pesci che se ne nutrono, finendo per entrare nella catena alimentare.
L’evidenza sottolineata da Brunet è che le microplastiche determinano l’alterazione dell’intero ciclo naturale delle piccole molecole presenti in acqua.
È quello che Brunet definisce ‘effetto cascata del Niagara’, a indicare la propagazione di conseguenze che coinvolgono tutti gli elementi dell’ecosistema, a partire dalle piccole molecole, fino ad arrivare agli organismi e ai sistemi più complessi.