Pietro Greco sulla rivista Micron approfondisce le caratteristiche del Nobel per la Pace assegnato quest’anno, in chiave ambientale.
Non può essere considerato un risultato deludente per i ragazzi (e gli adulti) che da molti mesi danno vita ai Friday for future, i venerdì di mobilitazione per contrastare i cambiamenti del clima, l’annuncio che il Parlamento norvegese non ha assegnato il Premio Nobel per la Pace 2019 alla loro giovanissima portabandiera, Greta Thunberg.
Non perché la ragazza svedese non lo meritasse, ma perché il vincitore, Abiy Ahmed Ali, primo ministro dell’Etiopia, può e deve essere considerato a sua volta una bandiera degli ambientalisti che si battono per prevenire l’ulteriore aumento della temperatura media del pianeta.
Il primo ministro etiope ha ottenuto il premio per avere in pochi mesi posto fine alla guerra con l’Eritrea e, in poche settimane, liberato prigionieri politici e giornalisti nella sua stessa Etiopia. Ma quella stessa lungimiranza e capacità di azione Abiy Ahmed Ali le ha riservate al contrasto ai cambiamenti climatici e ai suoi effetti (leggi disboscamento e desertificazione).
Il premier etiope si è infatti dimostrato consapevole che, sebbene l’Etiopia non abbia colpe né storiche né attuali, paga un prezzo altissimo ai cambiamenti climatici, proprio a causa delle foreste abbattute e dell’avanzata del deserto. E così ha deciso di varare una radicale politica di prevenzione del climate change e di sostegno al recupero della biodiversità. Il suo piano è quello di piantare nel paese 4 miliardi di alberi. Non è un programma scritto sulla sabbia. Nei mesi scorsi in un solo giorno l’Etiopia di alberi ne ha piantati ben 350 milioni.
Questa consapevolezza (…) dimostra che anche nei paesi in via di sviluppo c’è piena consapevolezza dei rischi associati ai cambiamenti del clima e c’è la possibilità di agire, come chiede Greta, in maniera socialmente sostenibile. Piantare alberi, infatti, non intacca ma consolida l’economia dell’Etiopia.
E dimostra (…) a tutti gli altri critici di Greta e del movimento di giovani che ogni venerdì scendono in piazza per rivendicare un futuro desiderabile, che – come autorevolmente affermato oltre trent’anni fa dalla Commissione Brundtland e come ribadito di recente da papa Francesco – non c’è sostenibilità sociale senza sostenibilità ecologica. Che, tradotto in pratica, significa che sono i più poveri a pagare il prezzo più salato dell’impronta umana sull’ambiente.
Ecco, il premio Nobel per la pace ad Abiy Ahmed Ali ci ricorda tutto questo. In maniera addirittura più forte e chiara che se fosse stato assegnato alla piccola Greta, che pure aveva tutti i titoli per meritarlo.
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