Prima dell’entrata in vigore dell’art. 18 L 349/86, inerente il danno ambientale e l’istituzione del ministero dell’Ambiente, vi era in Italia una mancanza di normativa posta a tutela dell’ambiente, motivo in ordine al quale la magistratura cercava di sopperire alla suddette carenze legislative utilizzando le norme del Codice civile e del Codice penale. I cosiddetti “pretori d’assalto” degli anni Settanta del secolo scorso utilizzavano, per esempio, l’art. 674 c.p. (getto pericoloso di cose) e l’art. 844 c.c. relativo alle immissioni. Ma è evidente che si trattava di norme nate per ben altre finalità (per esempio l’art. 844 c.c., principalmente indicato per le molestie tra fondi per stoppie bruciate o animali “rumorosi”, veniva applicato ai casi di inquinamento atmosferico ed elettromagnetico).
Nel corso degli ultimi decenni i giuristi hanno manifestato un crescente interesse nei confronti di tutte quelle norme che potessero, in qualche misura, costituire una tutela dell’ambiente ove l’uomo svolge la propria vita. Ciò è avvenuto sotto la spinta delle gravi preoccupazioni sorte nell’opinione pubblica riguardo ai problemi della salute e a quelli di un equilibrato rapporto fra uomo e natura.
La tematica della tutela ambientale è apparsa sin dall’inizio strettamente correlata a quella della tutela della salute, intesa nel duplice aspetto di diritto del cittadino e interesse della collettività. Ciò in quanto le conseguenze delle degradazioni ambientali necessariamente incidono sulla salute dei singoli e della collettività. Infatti, anche per effetto dell’attività normativa di livello internazionale in questo settore, si tende ormai a configurare un vero e proprio diritto all’ambiente salubre, come premessa per un’effettiva realizzazione del diritto alla salute.
È stato reperito ed esaminato un complesso di norme imponente, applicabile alla materia, e queste norme sono state fatte oggetto di appurati studi e di intensa applicazione pratica. Nel contempo, sotto la spinta di una vivace legislazione regionale, anche il legislatore statale si è mosso e ha mostrato di voler integrare e colmare le più gravi lacune che manifestava una normativa ormai largamente obsoleta. La diretta conseguenza è che, mai come negli ultimi anni, si sono celebrati tanti processi e sono state disposte tante misure cautelari in tema di reati ambientali.
L’evoluzione dell’ecomafia
Quello dei reati ambientali è divenuto, infatti, un business tra i più redditizi che ha alimentato illecitamente, negli ultimi decenni, molte altre economie. Il profitto derivante dagli scempi ambientali, dalle escavazioni abusive, dagli abusi edilizi, dai traffici internazionali di rifiuti ha consentito alla criminalità organizzata, ormai è assodato, di accumulare denaro da investire, poi, in altre attività apparentemente lecite. Ai classici guadagni illegali legati ai rifiuti e al cemento si è sempre più affiancato, negli ultimi anni, l’interesse dei gruppi criminali per i traffici di animali e vegetali di specie protette, il racket degli animali, il bracconaggio, la pirateria alimentare. Un quarto dell’intero fatturato annuo delle mafie deriva dalla cosiddetta “ecomafia”, poco meno di 20 miliardi di euro.
Un fenomeno non più legato solo ai confini del Meridione, ma che interessa tutti i territori in forma globalizzata, tanto che, per esempio, il reato di “attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti” (art. 452 quaterdecies c.p.), è un delitto attribuito alla competenza della Direzione distrettuale antimafia.
La crisi economica, poi, non ha fatto altro che favorire l’espandersi degli interessi della criminalità organizzata in nuovi mercati illeciti (oltre a quelli consolidati di armi e stupefacenti), con conseguente massimizzazione del rapporto profitti-rischi, come quelli connessi ai reati ambientali. Parallelamente, una moltitudine di piccoli e grandi abusi ambientali commessi quotidianamente in tutto il paese da singoli soggetti, anche lontani dalla malavita organizzata, ma sostanzialmente sicuri dell’impunità grazie a condoni, indulti, perdoni e amnistie, ha saccheggiato larghe fette di territorio.
Dall’impunità alla legge sui delitti ambientali
A fronte di una sempre crescente sensibilità dell’opinione pubblica sulle tematiche ambientali non sempre, in passato, è sembrata correre parallela un’adeguata attività legislativa in ordine al contrasto di tali abusi, posto che la maggioranza assoluta dei reati contro l’ambiente è, ancora oggi, una “contravvenzione”, ossia un reato “minore”, con pene inadeguate, effetto deterrente minimo e con preclusione per importanti strumenti di indagine quali, ad esempio, le intercettazioni e le misure cautelari personali.
Isolati e timidi approcci si sono, peraltro, registrati negli ultimi anni con l’introduzione nell’ordinamento di talune fattispecie delittuose in materia ambientale, quali, appunto, il traffico organizzato di rifiuti (art. 260 Dlgs 152/06, ora art. 452 quaterdecies c.p.), l’art. 423 bis c.p. in tema di incendi boschivi, l’art. 181 c. 2 lett. b) Dlgs 42/04 in tema di abusi edilizi e paesaggistici di notevole gravità.
Solo di recente però, con l’approvazione della legge 68/2015, si è assistito a una vera e propria svolta, grazie all’introduzione dei cd. “delitti ambientali” che, tuttavia, sono relativi alle sole fattispecie molto gravi (inquinamento ambientale, disastro ambientale, traffico e abbandono di materiali ad alta radioattività, impedimento al controllo, omessa bonifica). Inoltre, con la citata legge, è stata introdotta la possibilità di estinguere talune fattispecie contravvenzionali di minore rilevanza a seguito dell’ottemperanza alle prescrizioni e al successivo pagamento di sanzione pecuniaria (con ciò “importando” analogo procedimento già in vigore dal 1994 per i reati in tema di sicurezza nei luoghi di lavoro).
Purtroppo l’esperienza insegna che è difficilissimo ottenere l’accertamento giudiziale di fatti relativi ai reati ambientali e ciò a causa di una serie di ostacoli: in primis la prescrizione che, per i reati contravvenzionali, è fissata in via ordinaria in “soli” 4 anni dalla commissione dei reati medesimi (spesso difficoltosi da accertare e che richiedono lunghi tempi) e che, di frequente, vanifica il lavoro svolto dagli organi di polizia, dalle Procure della Repubblica e dagli organi giudicanti di ogni grado.
L’assenza di adeguate risorse economiche necessarie per le indagini (si pensi ai costi delle attrezzature, delle analisi, delle consulenze tecniche ecc.) di certo non facilita il compito degli organi di controllo. Tuttavia, alcune interessanti tecniche investigative nonché interventi in ambito processuale-penalistico sperimentati da alcune Procure della Repubblica virtuose hanno recentemente consentito di ottenere risultati significativi sul fronte della lotta ai crimini ambientali.
L’utilizzo del sequestro preventivo, previsto dall’art. 321 c.p.p., ha consentito, ad esempio, per lo meno di “bloccare” le condotte criminose in corso di realizzazione… Leggi l’articolo completo in Ecoscienza 6/2019
Autore: Davide Corbella
Responsabile “Aliquota reati contro l’ambiente e la salute”, sezione Polizia giudiziaria, Procura della Repubblica presso il Tribunale di Busto Arsizio (VA)
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