Roberto Giua, direttore del Centro Regionale Aria di Arpa Puglia, è stato intervistato dal giornalista Manco Ronchetto sul tema delle maleodoranze, su cui l’agenzia ha un’ampia esperienza e l’articolo è stato pubblicato nel numero di giugno 2019 della rivista OK Salute e Benessere.
A Modena lo scorso aprile il comitato cittadino Respiriamo Aria Pulita ha raccolto oltre 2.500 firme per mettere fine ai miasmi delle fonderie locali. Risale a due mesi prima l’evacuazione di due scuole a Taranto dopo che la città era stata invasa da un fortissimo odore di gas, che ha causato a diversi cittadini bruciore agli occhi e al naso, mal di testa e nausee.
A Siderno (Reggio Calabria) si lamentano per la puzza dovuta alla spazzatura organica che da 47 Comuni confluisce nell’impianto per il trattamento meccanico-biologico dei rifiuti solidi urbani.
Da anni chi abita nelle vicinanze del polo industriale di Siracusa denuncia il disagio per un tanfo nauseabondo non meglio identificato.
Da un’azienda produttrice di biocombustibile, attraverso l’utilizzo della parte grassa di scarti animali proveniva, invece, l’olezzo che nel Milanese infastidiva pesantemente gli abitanti di Pioltello e Cernusco sul Naviglio quattro anni fa.
Ma del resto un po’ a tutti, su e giù per lo Stivale, è capitato o capita di sentire ogni tanto nell’aria un lezzo di uova marce o pesce avariato. In termini tecnici si chiama inquinamento odorigeno e, ovviamente, il responsabile è sempre l’uomo. Ma, se per lo smog che si respira si muore (otto milioni all’anno i decessi a livello globale stimati dall’Organizzazione mondiale della sanità), quali sono i reali effetti sulla nostra salute determinati dai cattivi odori?
Per rispondere a tale domanda occorre una precisazione, come spiega il chimico Roberto Giua, direttore del Centro Regionale Aria di Arpa Puglia: «L’inquinamento odorigeno è causato dalla presenza nell’aria di sostanze percepibili dall’olfatto in concentrazioni molto basse, di gran lunga inferiori alla loro soglia di tossicità, cioè al livello oltre il quale sono in grado di produrre effetti gravi e irreversibili sulla salute. E proprio per quest’ultimo motivo fino a pochi anni fa il problema è stato sottovalutato. Sbagliando. Perché in realtà tramite il senso dell’odore il nostro organismo costruisce una sua difesa contro quelle sostanze a cui attribuisce un potenziale pericoloso (l’olezzo nauseabondo di un alimento putrefatto fa sì che non lo mangiamo, evitando tutte le conseguenze del caso)», anche se non sempre l’olfatto è in grado di segnalare la presenza di un composto nocivo.
Benzene e cloroformio, per esempio, hanno un TLV (Threshold limit value, ovvero il valore soglia utilizzato nella valutazione del rischio negli ambienti di lavoro considerando un’esposizione prolungata di otto ore al giorno e/o 40 ore a settimana) inferiore alla soglia di percezione olfattiva (OT).
«In effetti», interviene Vincenzo Belgiorno, professore ordinario di ingegneria ambientale presso l’Università degli Studi di Salerno, «l’odore è un fenomeno complesso da comprendere, non tanto per la vasta gamma di sostanze potenzialmente odorigene, ma principalmente perché la capacità di un composto di essere percepito dal nostro sistema olfattivo (potenzialità osmogena) dipende da aspetti diversi che sono oggettivi, cioè propri della sostanza (volatilità, idrosolubilità…), soggettivi (dipendono dalla fisiologia e dalla psicologia dell’osservatore) ed ambientali (temperatura, pressione, umidità relativa dell’aria, velocità e direzione dei venti).
Ne consegue che una sostanza osmogena, a distanza dalla fonte, è avvertita in maniera diversa da persone differenti». Nausea, vomito, mal di testa, irritazione degli occhi e delle via aeree, disturbi del sonno e dell’alimentazione sono, comunque, i disturbi psicosomatici immediati più comuni causati dagli odori sgradevoli, «nonostante questi episodi generalmente siano di breve durata, tra una e due ore», osserva Giua.
Ma «gli effetti», precisa Alessandro Miani, presidente della Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima) e professore aggregato di prevenzione ambientale presso l’Università degli Studi di Milano, «possono essere più gravi in chi soffre di asma e di altre patologie polmonari o di depressione o di ipersensibilità.
In generale, però, quando l’odore passa, cessano i sintomi. Cosa che certamente non è molto consolante nei casi in cui non siamo noi a dominare la fonte dell’odore. Ci sono comunità che sono in lotta da anni per gli odori ambientali prodotti da un determinato impianto: situazioni di stress vero che, a lungo andare, portano a un peggioramento della qualità della vita». Con danni anche economici, dal deprezzamento delle abitazioni allo spopolamento dei territori interessati dai fenomeni.
Al primo posto tra le cause dei cattivi odori ci sono gli impianti di trattamento di rifiuti urbani e di depurazione delle acque, responsabili dell’immissione nell’aria di composti di vario tipo, a partire dall’idrogeno solforato (o acido solfidrico, H2S), che emana il caratteristico odore di uova marce. «È quello che avvertiamo quando cuciniamo un uovo al tegamino, causato dalla rottura dei ponti solforati all’interno delle proteine dello stesso alimento», fa notare il dirigente di Arpa Puglia.
«Questo a basse concentrazioni, perché, se moltiplichiamo queste ultime per mille, l’H2S si rivela una sostanza dalla tossicità paragonabile a quella dell’acido cianidrico, usato nelle camere a gas per le esecuzioni capitali negli Stati Uniti». Tra l’altro, evidenzia Belgiorno, «a una certa concentrazione l’idrogeno solforato “anestetizza” il naso e non lo si sente più. Questo è un grande problema di igiene industriale e di sicurezza per i lavoratori potenzialmente esposti».
Altre sostanze – dai nomi quasi impronunciabili – presenti negli impianti di compostaggio che emanano odori sgradevoli sono il dimetilsolfuro (legumi in decomposizione), etilmercaptano (cipolla in decomposizione), gli acidi acetico (aceto), butirrico (burro rancido), valerico (sudore) e vari tipi di ammine (pesce avariato).
I composti solforati, con i solventi, sono tra le principali fonti di molestie olfattive emanate anche dalle concerie, mentre gli allevamenti zootecnici evacuano verso l’esterno composti aeriformi derivati sia dal metabolismo animale sia dai processi di degradazione biologica delle sostanze organiche contenute nelle deiezioni. Sorgenti di miasmi sono, poi, i trattamenti dei terreni agricoli con materiale organico e pesticidi, le varie attività agro-industriali (macelli, distillerie, zuccherifici, sansifici), passando per le raffinerie di petrolio fino ai camini dei ristoranti.
Proteggersi dall’inquinamento odorigeno a livello di singola persona non è per niente facile, «a parte chiudersi in casa e installare un impianto di climatizzazione adeguato», prosegue Giua. «Come prima misura da adottare è necessario l’intervento sulle sorgenti di tali emissioni.
Bisognerebbe sigillare vasche, serbatoi e capannoni in modo tale da contenere la fuoriuscita di odori e trattare quello che esce all’esterno con sistemi di abbattimento, detti biofiltri, che attraverso appositi batteri ossidano, e quindi eliminano, le sostanze incriminate. E, comunque, vale sempre la regola per cui gli impianti industriali non dovrebbero mai essere dislocati nelle vicinanze degli insediamenti abitativi».
Ma, se il problema è assai sentito dalla popolazione, non lo è altrettanto dalle istituzioni, visto che risale solamente al novembre 2017 il riconoscimento legislativo nazionale delle «emissioni odorigene», con competenze su prevenzione e limitazioni lasciate comunque alle Regioni.
«A differenza di altri Paesi europei, dove esistono linee guida ben definite che permettono innanzitutto di prevenire il fenomeno, in Italia», concorda Belgiorno, «non abbiamo normative specifiche per tutelare le persone esposte.
Ci rifacciamo a norme generiche sulla riduzione delle emissioni in atmosfera degli inquinanti, alla localizzazione degli impianti che fanno capo alle leggi sanitarie (le lavorazioni insalubri) e alla prevenzione dell’inquinamento».
Gli fa eco Miani: «Normalmente le emissioni delle imprese “colpevoli” sono entro i limiti autorizzati e le autorità, come l’Arpa, non hanno margini d’intervento. Inoltre misurare l’odore ambientale è complesso e costoso e tale attività viene svolta quasi esclusivamente da ricercatori».
Qualcosa si è già mosso a livello regionale, con gli interventi legislativi della Puglia e le linee guida sugli impianti di compostaggio della Lombardia, che ora sta lavorando per definire i limiti di accettabilità di alcune attività a rischio.
Giua, da parte sua, segnala l’importanza che le istituzioni coinvolgano sempre più i cittadini «con una raccolta raccolta sistematica delle segnalazioni e la loro successiva elaborazione, così da individuare la fonte dell’odore attraverso la correlazione tra ora e luogo in cui si sono verificate le emanazioni con le condizioni meteorologiche, a partire dalla direzione del vento».
Il Comune di Modugno (Bari), per esempio, ha lanciato l’applicazione per smartphone Segnal App-Odori. Questo è importante anche per costruire, nel caso, una solida causa giudiziaria contro i responsabili dell’inquinamento odorigeno: «Anche se il codice civile non contempla specificatamente questo reato», conclude il presidente Sima, «il codice penale tutela le persone contro la molestia, che, tecnicamente, avviene quando si percepisce l’odore oltre la normale tollerabilità».