Intervista a Marco Biffi, professore ordinario di Linguistica italiana presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze e membro dell’Accademia della Crusca.
Oggi, l’informazione, anche quella proveniente dagli enti pubblici, è chiamata a diffondere contenuti scientifici. È accaduto durante la pandemia e accade anche con i cambiamenti climatici ed i suoi effetti. Come è possibile rendere efficace l’informazione quando questa è fortemente connotata da tecnicismi e anglicismi a cui, spesso, gli stessi divulgatori scientifici non vogliono rinunciare?
Innanzitutto, bisogna distinguere fra divulgazione scientifica e comunicazione pubblica o mediatica.
La divulgazione riguarda la spiegazione della ricerca scientifica al grande pubblico ed è molto importante se riferita a temi quali la sostenibilità e a tutte quelle problematiche che hanno sì carattere scientifico, ma che hanno delle ricadute sulla popolazione. È necessario spiegare gli argomenti scientifici in modo chiaro e trasparente in modo che siano comprensibili a tutti. Altra cosa è la comunicazione, che, invece, spesso verte sul fornire informazioni di servizio e indicazioni operative. In questo caso è necessario utilizzare un registro diverso, che ha bisogno di chiarezza e pragmatismo.
Il problema dei tecnicismi c’è in entrambi i campi. Il tecnicismo nasce all’interno di un gruppo di addetti ai lavori e favorisce lo scambio comunicativo fra esperti di un certo settore. Viene utilizzato all’interno di testi scientifici, in contesti precisi come i convegni e i laboratori. Nella divulgazione può esser dato spazio ai tecnicismi, che però hanno la necessità di essere spiegati. Nella comunicazione, invece, l’utilizzo di tecnicismi dovrebbe essere limitato. Non andrebbero proprio utilizzati, se ci sono alternative lessicali valide. Tant’è vero che un concetto chiave della comunicazione è quello di evitare i cosiddetti “tecnicismi collaterali”, cioè tecnicismi che non servono davvero e che sono facilmente sostituibili con parole di uso comune. Un esempio di tecnicismo collaterale è la parola “accusare” in medicina. “Accusare un sintomo” significa semplicemente “avere un sintomo”, non ha nessuna accezione specialistica particolare, però, tra i medici è valso l’uso di accusare al posto di avere.
Nella comunicazione pubblica che c’è stata durante la pandemia è stata evidente la mancanza di attenzione verso l’utilizzo di parole che fossero chiare e trasparenti. È stato frequente l’uso di tecnicismi, che poi sono spesso anche anglismi. Quando si è utilizzato la parola “droplet” per indicare la gocciolina di saliva, volendo spiegare le modalità di trasmissione del virus, o la parola “booster” invece di richiamo, si è commesso un errore di comunicazione enorme, ma si è anche arrecato un danno morale ai diritti dei cittadini italiani. In quel momento le persone più a rischio erano le persone anziane e sappiamo dai dati forniti dall’Istat che la maggior parte delle persone anziane ha un basso grado di istruzione. Sono persone che non solo non conoscono l’inglese, ma che hanno difficoltà con parole italiane che non rientrano nell’uso comune. Se la finalità della comunicazione era quella di farsi capire dal maggior numero di persone, l’utilizzo di queste parole non è certo servito a raggiungere tale scopo.
L’uso di un linguaggio estremamente tecnico, talvolta arricchito da molti termini anglosassoni, come accade nella descrizione del cambiamento climatico, può contribuire, e in che misura, alla nascita di fake news e/o all’affermarsi di teorie non supportate dalla scienza?
Non credo che l’origine delle fake news sia legata a una cattiva comunicazione della scienza o a una comunicazione non sempre trasparente dei concetti scientifici. L’origine delle fake news va soprattutto ricercata nei meccanismi che si sono imposti nel mondo della rete, in particolar modo dei social network. Il Web sempre di più invita le persone a contribuire con i propri testi alla comunicazione. La fake news non nasce dal fatto che non capiamo qualcosa, ma dal fatto che rifiutiamo di capire qualcosa che non ci piace e per questo scegliamo di credere a informazioni che riusciamo ad accettare con più facilità.
Oggi si parla di “post verità”. In molte occasioni abbiamo potuto assistere alla circolazione di questo tipo di argomentazioni false: durante la Brexit e le elezioni di Trump, durante la pandemia e nella odierna discussione sui cambiamenti climatici. Anche il mondo dell’informazione a volte non facilita una corretta comprensione, perché c’è la tendenza della stampa e dei media in generale alla spettacolarizzazione, mettendo in scena un dibattito e una contrapposizione fra due diversi punti di vista, senza tener conto della disparità di rappresentatività. Se in un dibattito metto a confronto l’opinione di due scienziati, uno dei quali rappresenta il 96% della comunità scientifica e l’altro il 4%, non faccio un buon servizio e non do un’informazione corretta. Le persone a cui non piace il messaggio veicolato dalla comunità scientifica tenderanno a identificarsi con l’idea che più piace, sebbene non suffragata dalla scienza.
Quali studi sta realizzando l’Università di Firenze per capire il linguaggio del cambiamento climatico? Perché bisogna abbandonare i tecnicismi e quali sono le proposte di semplificazione del linguaggio in quest’ambito?
L’Università di Firenze, in particolare il Dipartimento di Lettere e Filosofia, sta portando avanti un importante progetto, attraverso una borsa di dottorato di ricerca, per individuare tecniche, linee guida, indicazioni che si possono dare a chi si occupa di comunicazione nell’ambito della sostenibilità ambientale e dei cambiamenti climatici per raggiungere quegli obiettivi di chiarezza e trasparenza di cui abbiamo parlato.
Ciò comporta l’individuazione di testi diversificati a seconda dei diversi gruppi sociali, in relazione all’età, alla provenienza geografica e al grado di istruzione. Una ricerca dell’Istat del 2020 fotografa il grado di istruzione della popolazione italiana sopra i 15 anni: il 16% della popolazione si ferma alla scuola elementare, il 32% ha frequentato fino alla scuola media, il 6% ha un diploma biennale o triennale, il 31% ha la maturità e il 15% ha una laurea o un grado di istruzione superiore. Ciò ha un impatto importantissimo. Nel lessico dell’italiano ci sono delle parole che sono comprensibili a tutti, indipendentemente dal grado di istruzione. Si tratta del cosiddetto “vocabolario di base” che è composto da circa 6700 parole e queste sono le uniche parole che davvero possono essere comprese da chi si ferma alla licenza media. Le parole che esulano da questo cerchio ristretto e che rientrano in quello che viene chiamato “lessico comune”, che sono circa 60mila, sono invece comprensibili da chi ha la maturità. Le parole tecniche e scientifiche sono un gradino oltre.
Per questo è fondamentale un accurato lavoro sulla terminologia dell’ambiente e dei cambiamenti climatici, cioè sulle parole che veicolano i concetti di base, che spesso sono caratterizzate da avere una forte connotazione tecnica e dall’essere in inglese.
Comprendere il cambiamento climatico e i suoi effetti, grazie a un linguaggio semplice, che utilizza termini di uso comune, può aiutarci ad adottare comportamenti di resilienza ai nuovi scenari climatici, ma il tempo a nostra disposizione sembra essere sempre meno, mentre, i tempi dell’acquisizione di nuovi termini e di modifica del linguaggio, per una maggiore comprensione e azione, sono lunghi. A che punto siamo? Dal suo punto di vista abbiamo qualche chance di successo? Oppure i cittadini capiranno il cambiamento climatico sulla propria pelle, rimanendo purtroppo vittime dei suoi effetti?
Certamente siamo in ritardo. Non neghiamo che non sia facile compiere un’operazione di trasparenza in Italia, ma ci dobbiamo e ci vogliamo provare. Quando invitiamo le persone a tenere dei comportamenti sostenibili, rispettosi dell’ambiente, quando chiamiamo la popolazione a intraprendere un cambiamento nello stile di vita, che richieda anche uno sforzo e l’abbandono di certi costumi e abitudini, è importantissimo che la comunicazione renda chiari quali sono gli effetti benefici dei cambiamenti richiesti.
Se la comunicazione delle politiche di sostenibilità è infarcita da parole oscure, tecnicismi, termini respingenti si crea un corto circuito negativo e si finisce per allontanare le persone, quando invece servirebbe la collaborazione di tutti. Il problema però non riguarda solo l’ambito della lingua e della comunicazione. Esiste in Italia un ritardo culturale dovuto anche e soprattutto al basso grado di istruzione della popolazione. Sarebbe assolutamente necessario alzare la soglia della cultura media italiana, perché non basta la semplificazione e la trasparenza della lingua. Bisognerebbe favorire l’aumento del grado di maturità e di consapevolezza della società per garantire una maggiore partecipazione di quest’ultima alle politiche promosse in campo ambientale e non solo. Una politica di sostenibilità senza la partecipazione attiva di tutti i cittadini non si può mettere in pratica.
Qual era il linguaggio dei grandi scienziati del passato?
L’italiano è una lingua che ha avuto uno standard nazionale piuttosto tardi, nel 1612, con l’uscita del Vocabolario degli Accademici della Crusca ed è uno standard tarato sostanzialmente sull’italiano letterario. La lingua scientifica italiana è stata una lingua che ha faticato a emergere a livello nazionale, anche se ne abbiamo testimonianze ben prima del 1612. Leonardo Da Vinci, ad esempio, è uno dei primi costruttori della lingua tecnica e scientifica. Lo scienziato costruisce una terminologia che gli è propria, dando dei nomi ai fenomeni da lui osservati e agli strumenti particolari utilizzati. Spesso la lingua della scienza e della tecnica prende le mosse dalla lingua comune. Un meccanismo piuttosto frequente è quello di inventare dei tecnicismi attraverso delle metafore, per somiglianza di forma e di funzione. Questo è l’approccio che usa colui che è ritenuto l’iniziatore della prosa scientifica italiana, Galileo Galilei. Partendo dalla lingua comune Galileo costruì una terminologia della fisica e dell’astronomia che andava a indicare concetti, fenomeni e strumenti. Nella formazione di una terminologia tecnico scientifica l’italiano nel corso della storia è stato vitale, almeno fino agli anni ’30 (uno degli ultimi italianismi della scienza è la parola “neutrino” che si deve allo scienziato Enrico Fermi). La terminologia nasce e si sviluppa là dove si ha una ricerca scientifica avanzata: nell’era contemporanea il centro di gravità sono stati gli USA ma, anche quando sia stata altrove, si è scelta per provincialismo una sudditanza psicologica rispetto all’inglese. Non è che oggi non vi siano eccellenze in Italia, ma queste eccellenze si trovano costrette a utilizzare l’inglese.
Non si tratta di una questione formale e di poco conto. Purtroppo la lingua della scienza oggi è tendenzialmente sempre più anglofona. Sarebbe invece importante che gli scienziati italiani utilizzassero l’italiano per spiegare e diffondere le proprie ricerche scientifiche perché, sebbene guardiamo alla lingua come strumento di comunicazione, è importante ricordare che in primo luogo la lingua serve per pensare. Pensare in italiano o pensare in inglese porta inevitabilmente a risultati diversi. Galileo Galilei ha inventato il metodo scientifico moderno basato sulla sperimentazione pensandolo in italiano. Se Galileo avesse pensato in tedesco, in francese o in inglese il metodo scientifico sarebbe diverso da quello che conosciamo, forse migliore, ma certamente diverso. Garantire vitalità e varietà di pensiero nella comunità scientifica internazionale è importante per garantire maggiore apertura e possibilità di scambio, con approcci diversi perché legati a culture e lingue diverse. È una ricchezza poter contare su teste che pensano in lingue diverse. Invece stiamo andando nella direzione della lingua unica, con persone che pensano in un’unica lingua, l’inglese, che spesso non è la lingua madre e quindi con potenzialità infinitamente minori rispetto a quelle che avrebbero pensando ed esprimendosi nella propria lingua.