Nella primavera 2020 i ricercatori di ARPA Valle d’Aosta hanno rilevato sulla regione valdostana valori di radiazione solare ultravioletta più alti della media.
Lo studio di questo fenomeno, condotto insieme al Consiglio Nazionale delle Ricerche – CNR e pubblicato sul Bulletin of Atmospheric Science and Technology (The 2020 Arctic ozone depletion and signs of its effect on the ozone column at lower latitudes), attribuisce tale aumento a un «buco dell’ozono» formatosi sull’Artico e poi disceso sull’Europa.
Un evento raro, ma che potrebbe diventare sempre più probabile col riscaldamento globale.
Diciamolo subito: la radiazione ultravioletta (UV) sulla Valle d’Aosta è fortunatamente tornata ai suoi valori tipici in poche settimane e le variazioni osservate nei mesi di aprile e maggio 2020 (un aumento di circa il 20%) non devono destare eccessiva preoccupazione, sia per la durata limitata del fenomeno sia perché oggi si dispone di tutta l’informazione necessaria per proteggerci.
Sul sito web di ARPA Valle d’Aosta, per esempio, è possibile seguire il bollettino della radiazione UV elaborato quotidianamente, e valutare quale protezione adottare prima di un’escursione in montagna o di una giornata all’aperto.
L’evento, tuttavia, è significativo dal punto di vista scientifico. Cerchiamo di capire il perché.
Ozono: problema risolto? Sì… anzi, no.
Di che cosa stiamo parlando esattamente? In questo contesto, non ci riferiamo all’ozono disperso nell’aria che respiriamo alla superficie terrestre, un tipico inquinante estivo dagli effetti irritanti, ma allo stesso gas presente, in concentrazioni molto maggiori, a 20-30 km di quota e in grado di ripararci, come un ombrello, dalla radiazione UV solare. Meno ozono in stratosfera, dunque, più UV a terra.
Com’è noto, alcune sostanze emesse dall’uomo nel passato (per esempio, i tristemente famosi “CFC”), tuttora circolanti in atmosfera, sono in grado di danneggiare lo strato di ozono globale.
Il punto più nevralgico dell’intero pianeta è il polo sud, dove, a causa di condizioni ambientali estreme, al ritorno del sole dopo l’inverno polare lo strato di ozono subisce un drastico assottigliamento, definito appunto «buco dell’ozono». In seguito al Protocollo di Montreal firmato alla fine degli anni ’80, tuttavia, alcuni timidi segni di guarigione (healing) dello strato di ozono antartico iniziano oggi a essere visibili.
Al polo nord, però, il fenomeno è decisamente più raro che al polo sud. A causa della diversa distribuzione degli oceani, infatti, all’inverno artico manca un ingrediente fondamentale: il freddo molto intenso e prolungato caratteristico del polo sud. Solo se le temperature negli strati più alti dell’atmosfera si abbassano al di sotto dei -80°C circa è possibile assistere alla formazione di nubi stratosferiche polari, sulle quali avvengono le reazioni chimiche più temibili per l’ozono.
In alcuni anni particolari, tuttavia, anche l’Artico ha ospitato un “fratello minore” del buco dell’ozono antartico: nel 1997, 2011 e 2020 (in quest’ultimo anno battendo tutti i record). Quando poi, nel corso della primavera, il buco dell’ozono artico si sfilaccia, alcune masse d’aria povere di questo gas sono libere di scivolare a latitudini minori, ad esempio verso l’Europa.
Lo studio
CNR e ARPA Valle d’Aosta hanno esaminato le serie delle misure di ozono stratosferico ottenute in sei stazioni europee a latitudini diverse, e precisamente dal circolo polare artico (Ny-Ålesund, isole Svalbard) fino a Roma. Tra queste stazioni vi è Saint-Christophe (Valle d’Aosta), uno dei nodi, dal 2007, della rete mondiale per il monitoraggio dell’ozono. Inoltre, tale sito di ARPA Valle d’Aosta riveste un ruolo centrale dello studio, perché detiene una delle serie di misure di radiazione UV solare a terra più accurate al mondo.
I ricercatori hanno, così, ricostruito la discesa delle masse d’aria povere di ozono dal polo nord all’Europa meridionale. Sia la direzione dei venti nell’alta atmosfera, sia gli andamenti nel tempo nei diversi siti dimostrano in modo inequivocabile che l’origine delle variazioni osservate è proprio la riduzione di ozono avvenuta nella regione artica.
Ma è tutto così semplice? No, e infatti, considerando esclusivamente le variazioni di ozono, i conti della radiazione UV in Valle d’Aosta non tornano perfettamente, aspetto che ha incuriosito ulteriormente i ricercatori e che rende bene l’idea della complessità dei fattori in gioco.
Altre circostanze, infatti, hanno rivestito un ruolo importante nelle stesse settimane.
Il lockdown, innanzi tutto, ha causato una parziale riduzione negli strati più bassi dell’atmosfera delle polveri fini, in grado anch’esse di assorbire la radiazione solare. Contemporaneamente, i venti da est hanno favorito il trasporto di masse d’aria inquinate dalla Pianura Padana alla Valle d’Aosta, compensando così la riduzione delle emissioni locali di PM.
Dunque – paradossalmente – in Valle d’Aosta l’aria è stata meno trasparente durante il periodo di lockdown 2020 rispetto alla media degli anni precedenti.
Tuttavia, una serie di giornate serene e secche su tutta l’Europa occidentale hanno favorito, nella primavera 2020, un aumento della radiazione solare complessiva a terra. Infine, alcuni studi evidenziano un possibile ruolo delle emissioni da traffico aereo sull’ozono a quote intermedie (libera troposfera).
Solo tenendo conto di questa incredibile molteplicità di fattori, dei quali la diminuzione di ozono è il più importante, è stato possibile ricostruire gli aumenti di radiazione UV osservati in Valle d’Aosta.
Che cosa aspettarci per il futuro?
Come riporta un recente studio, il cambiamento climatico in atto potrebbe contribuire alla formazione più frequente del buco dell’ozono al polo nord.
L’innalzamento delle temperature nella parte bassa dell’atmosfera (dovuto all’aumento del ben conosciuto «effetto serra») genera infatti, come contraccolpo, un raffreddamento negli strati atmosferici superiori, favorendo così la formazione di nubi stratosferiche polari.
Da semplice curiosità scientifica, la diminuzione dell’ozono artico potrebbe perciò diventare un fenomeno da osservare con maggiore regolarità e attenzione.
Infatti, le medie latitudini sono fasce geografiche densamente popolate ed eventuali aumenti della radiazione UV nella tarda primavera, se persistenti, potrebbero avere conseguenze relativamente importanti per la salute pubblica.
Insomma, ozono e UV sono tutt’altro che capitoli chiusi definitivamente, anche dopo il Protocollo di Montreal.
Per questo motivo, da 17 anni ARPA Valle d’Aosta monitora la radiazione UV solare con competenze specialistiche di alto livello e strumentazione avanzata, in grado di rilevare piccole variazioni che possano, tuttavia, rappresentare un campanello d’allarme di fenomeni globali complessi: un laboratorio prezioso nel contesto europeo e mondiale, che fa della Valle d’Aosta un punto di osservazione privilegiato.