Scienza e tecnologia permeano sempre più il nostro agire quotidiano, come dimostra il rapporto che abbiamo ad esempio con pc, cellulari e tablet. Viste le molteplici implicazioni, occorre assicurare che il sapere scientifico costruito con la citizen science risponda ai rigorosi criteri propri della conoscenza scientifica. L’articolo di Mario Cirillo per la rivista Ecoscienza.
Esaminando l’andamento della frequenza delle locuzioni philosophy of science e citizen science su Google Trends, lo strumento di Google che misura la quantità di richieste con determinate parole chiave, si vede che dal 2004 a oggi – quasi 13 anni – nel mondo le richieste relative a philosophy of science si riducono a un terzo, quelle relative a citizen science quasi triplicano; inoltre nel 2004 le richieste su philosophy of science sopravanzavano di quasi 15 volte quelle relative a citizen science, negli ultimi 12 mesi sono meno del doppio (figura 1).
Evidentemente ci si interessa sempre meno degli aspetti filosofici della scienza, mentre cresce l’attenzione al collegamento tra scienza e gente comune.
Citizen science, scienza dei cittadini: può significare la scienza per i cittadini (genitivo oggettivo), oppure i cittadini che fanno scienza (genitivo soggettivo). Le definizioni più comuni propendono per questa seconda accezione: citizen science è il coinvolgimento dei cittadini in attività di ricerca (cfr. per es. il sito della Citizen science association), anche se non mancano interpretazioni più ampie della locuzione (cfr. per es. il sito della Commissione europea).
Quanto alla filosofia della scienza, non sembra avere molta fortuna nella comunità dei diretti interessati; al premio Nobel per la fisica Richard Feynmann si attribuisce la frase: “La filosofia della scienza è tanto utile agli scienziati quanto l’ornitologia lo è agli uccelli”. E però mai come in questo periodo è necessaria una riflessione aperta, cioè non limitata ai soli professionisti della scienza; una chiarificazione e un’informazione ben comunicata sulle ipotesi, le fondamenta, i metodi, le implicazioni della scienza, nonché sull’uso e il valore della stessa (questo è più o meno ciò che comunemente si considera l’oggetto della filosofia della scienza) sono opportune, necessarie e direi indispensabili: basti pensare alle recenti vicende sulle vaccinazioni.
Sempre più scienza e tecnologia nella vita quotidiana
Il punto è che oramai la nostra vita quotidiana, le decisioni pubbliche e private, le nostre azioni sono intrise di scienza e della figlia prediletta di questa, la tecnologia: quanto tempo passiamo a smanettare con lo smartphone o il tablet, o a guardare la tv, o a guidare la macchina? L’energia elettrica ci sembra da sempre indispensabile, eppure più o meno un secolo fa non era disponibile; per non parlare del wi-fi in assenza del quale ci sentiamo persi, dimenticando che il protocollo di comunicazione 802.11b, insieme con il nome “wi-fi” e il relativo logo, nasce nel 1999, e che noi lo utilizziamo da una manciata di anni.
Insomma, nel giro di pochi decenni si è passati da una situazione in cui la scienza interagiva debolmente con la vita quotidiana e le decisioni, a una situazione in cui tutto ciò che ci circonda è frutto, direttamente o indirettamente, di ricerca scientifica.
Quanto sopra vale anche, e direi in maniera peculiare, per le attività di tutela e risanamento dell’ambiente. Di conseguenza, per applicare in maniera corretta la conoscenza scientifica e i suoi strumenti, è necessario considerarli in un contesto che include le diverse parti interessate e/o coinvolte (stakeholder), occorre tenere in conto le decisioni prese e la dimensione etica: siamo nell’ambito della cosiddetta scienza post-normale (cfr. per es. Funtowicz & Ravetz, 1992). Sull’argomento si è sviluppato da tempo un ampio dibattito, purtroppo rimasto confinato prevalentemente a una ristretta cerchia di addetti ai lavori, mentre è per lo più assente nelle comunità dei ricercatori, dei tecnologi e dei tecnici che quotidianamente applicano le conoscenze scientifiche e tecniche, per non parlare dei decisori e della gente comune.
Ebbene, la citizen science è una componente paradigmatica della scienza post-normale. Peraltro è ragionevole che i cittadini siano co-protagonisti nella costruzione del sapere scientifico che tanta importanza ha nella loro vita; il punto è assicurare che il sapere scientifico che si costruisce con la citizen science lo sia a tutti gli effetti, obbedisca cioè ai rigorosi criteri di scientificità propri della conoscenza scientifica.
In proposito non è superfluo osservare che talora anche la conoscenza scientifica propriamente detta dirazza dai “rigorosi criteri” di cui sopra, e questo riguarda anche articoli pubblicati in riviste scientifiche peer reviewed con tanto di impact factor – oltre che pubblicazioni inerenti alla cosiddetta “ricerca istituzionale” (rapporti e manuali tecnici, linee guida, istruttorie, pareri ecc.) e a consulenze tecniche fatte su richiesta della magistratura inquirente. E non va trascurato che questi documenti spesso si inseriscono in procedimenti che possono avere implicazioni importanti e gravi, pure di carattere civile e penale.
Anche sulla base di queste considerazioni la legittima ambizione dei progetti sottesi alla citizen science, che si colloca nell’alveo della open science, deve coniugare la flessibilità nelle differenti possibilità di coinvolgimento dei cittadini con il rigore e la trasparenza dei metodi e degli strumenti che utilizza.
Capire e accettare l’incertezza connaturata alle misure
Infine – e questa è una considerazione del tutto generale, che va oltre la citizen science – è necessario tenere conto della distorsione con cui molto spesso la conoscenza di carattere tecnico-scientifico viene percepita e interpretata: la tutela dell’ambiente implica la considerazione di aspetti scientifici e tecnici anche molto sofisticati e, come è ben noto agli addetti ai lavori, qualsiasi valutazione tecnico-scientifica è affetta da una incertezza più o meno grande. Questo fa molta fatica a farsi strada nei decisori e nella pubblica opinione: chi decide e chi è soggetto a potenziali rischi da inquinamento ambientale vuole certezze granitiche, “fondate sull’evidenza” (Gallino, 2007) per poter intraprendere con sicurezza delle strategie avendone garantito l’esito, e questo spesso confligge con le problematiche ambientali che, proprio a causa della loro complessità e dell’incertezza cui le analisi tecnico-scientifiche sono affette, possono essere aliene da una soluzione chiusa e definitiva.
In tutto questo si inserisce spesso l’intervento della magistratura che, rilevando lo sforamento dei valori limite degli inquinanti, avvia procedimenti. Certo in queste condizioni è difficile da parte del tecnico comunicare al decisore che non si è in condizione di dare risposte “chiuse” alle domande che gli vengono formulate; ed è altrettanto difficile al decisore o al tecnico inquisito spiegare al magistrato che, ad esempio, la cattiva qualità dell’aria non è paragonabile, nella dinamica che porta all’insorgenza del problema, a un furto o a un omicidio.
Insomma un processo difficile e faticoso, reso ancora più complicato dalla conflittualità sovente presente nelle questioni ambientali, e che in assenza di risposte univoche o totalmente esenti da incertezze – spesso con la complicità di una carenza comunicativa che trasmetta efficacemente questa complessità, o peggio ancora di una distorsione comunicativa non si sa quanto involontaria o alimentata da interessi “trans-tecnici” – può avere come esito finale una caduta di credibilità delle istituzioni preposte alla salvaguardia dell’ambiente, e può addirittura portare in più di un caso ad adombrare il rischio di mancanza di neutralità della stessa scienza (Greco, 2007).
Io penso che il punto non sia la mancanza di neutralità in assoluto della scienza, e che anzi il problema posto in questi termini sia semplicemente indecidibile: una misura è una misura, un modello è un modello, una tecnologia è una tecnologia, e non sono in sé né buoni né cattivi, il problema è come si fanno le misure, come si applicano i modelli e l’uso che si fa della tecnologia; questo, come sempre, dipende dalle persone. E tuttavia non vi è dubbio che, alla luce della sempre maggiore intrusione della scienza e della tecnica nella quotidianità e nei processi decisionali, sia ineludibile il passaggio da una conoscenza “affidabile” in termini scientifici – cioè che abbia superato il vaglio cui normalmente la comunità scientifica internazionale sottopone le nuove conoscenze – a una conoscenza “socialmente robusta” (Gallino, 2007); il che significa rendere la conoscenza scientifica e tecnologica – che deve comunque continuare a perseguire le sue finalità interne con rigorose opzioni di metodo – più permeabile a valori, aspettative, interessi esterni.
È il modello della partecipazione estesa, che opera deliberatamente dentro l’imperfezione (Funtowicz, 2007) e che deve fare ricorso sempre più ai meccanismi della democrazia partecipativa pur nella consapevolezza delle sue ambiguità e dei dilemmi che essa pone (Bobbio, 2006).
È in questo contesto di scienza post normale che si inserisce la citizen science, la quale – se vuole essere uno strumento utile, e non un fattore di confondimento, se non addirittura un generatore di conflitti – deve percorrere la strada stretta costeggiata da un lato dal rigore del metodo e dalla correttezza degli strumenti e del loro uso, e dall’altro dal costante e trasparente confronto con le aspettative e i legittimi interessi della società civile. Non ci sono scorciatoie.
Mario Cirillo Dipartimento per la valutazione, i controlli e la sostenibilità ambientale, Ispra
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